Articolo da La Città Futura
L’800 francese era iniziato con la signora delle rivoluzioni, il 1789 aveva messo in discussione il potere del clero e del re in nome di un nuovo sistema di valori basato sulla libertà e sull’uguaglianza. Attore principale dell’insurrezione fu il Terzo Stato, che comprendeva tanto il sottoproletariato quanto la nascente classe borghese. Tuttavia, sarà quest’ultima a uscirne da vera vincitrice, dopo la parentesi giacobina di Robespierre. Il congresso di Vienna non spense l’entusiasmo del proletariato e nel 1830 Parigi fu di nuovo palcoscenico di numerose rivolte. Anche in questo caso, le premesse popolari della ribellione, scaturite dal colpo di mano anticostituzionale di Carlo X, vennero poi limitate dai deputati liberali che, prese le redini della sommossa, conservarono la monarchia costituzionale, ponendo fine alla dinastia dei Borboni in Francia. Il vero fallimento del congresso di Vienna si verificò nel 1848 quando le sommosse si espansero in tutta Europa. Se in alcune zone i moti erano causati anche e soprattutto da sentimenti nazionalisti e indipendentisti (è il caso dell’Italia e dei territori austriaci) in Francia si alimentò il contrasto di classe. Dal ’48 in avanti, a detta di Engels, “le rivoluzioni in Francia non potevano che assumere carattere proletario”, forse anche come conseguenza della pubblicazione, lo stesso anno, del Manifesto del Partito Comunista.
La geniale intuizione di Marx descrive il periodo seguente con il termine di bonapartismo, a indicare quella forma di dittatura più o meno celata, con tratti che vanno dal suffragio universale all’unione tra il potere legislativo e esecutivo.
La vittoria nella guerra di Crimea del 1856 spronò Napoleone III a dichiarare guerra alla Prussia nel 1870, un errore che si concluse con la sconfitta di Sédan e la cattura dell’imperatore: siamo all’epilogo del bonapartismo.
Fu in questo contesto che, proclamata la Terza Repubblica e superato il gelido inverno del 1870 scandito da scontri di piazza, il 18 marzo 1871 i ribelli di Parigi fraternizzarono con l’esercito che si rifiutò di sparare sulla folla. Vennero occupati i municipi, costruite le barricate e giustiziati due generali, vennero indette le elezioni per il 26 marzo e il 28 marzo fu proclamata la Comune di Parigi. Venne formata l’Assemblea e costituite le Commissioni amministrative, la scuola fu resa pubblica, laica e obbligatoria, la Chiesa e lo Stato furono separati. Furono sospesi i debiti e successivamente anche il pagamento degli affitti, la Guardia Nazionale divenne l’unica forza armata in città e, se già era composta prevalentemente da proletari, da ora dovevano farne parte tutti i parigini tra i 14 e i 66 anni. Lo stipendio di tutte le cariche pubbliche non poteva superare i 6.000 franchi, lo stipendio medio degli operai, per sconfiggere il carrierismo classista. Fonte di litigi fu la gestione della finanza: non furono forzate le casse dello Stato, quasi come una forma di rispetto, e furono chiesti dei soldi alla Banca di Francia, molti militanti lamentarono questo atteggiamento nei confronti del tempio del capitalismo. Anche Engels si chiese come mai tutte le rivoluzioni iniziano col prendersi le ricchezze del nemico e la Comune non lo fece, solo Marx evidenziò il comportamento con la Banca di Francia come necessario. Nella prefazione del La guerra civile in Francia, saggio storico politico scritto di getto da Marx proprio nel 1871, Engels scrisse che “il filisteo socialdemocratico recentemente si è sentito preso da un salutare terrore sentendo l’espressione: Dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere com’è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi. Questa era la dittatura del proletariato”.
I comunardi avevano due nemici alle porte di Parigi, l’esercito prussiano che circondava la città ormai da mesi, e l’esercito della Terza Repubblica, stanziatosi a Versailles, pronto a debellare la Comune. L’unione fra le due forze fu celata ma evidente, il 21 maggio l’esercito di Thiers entrò nella città dando inizio alla Settimana di Sangue, una violentissima repressione che vide 20 mila vittime, esili e incarcerazioni. La Comune capitolò a Belleville e Montmartre il 28 maggio 1871, dopo 72 giorni di autogoverno.
La maestosa opera storiografica di Lissagaray sulla Comune venne censurata per non macchiare di sangue la nascita della Terza Repubblica del 1870, due anni dopo venne innalzata la basilica di Sacre Coeur anche per espiare i peccati dei comunardi; recita la scritta sull’abside: “Al cuore santissimo di Gesù, la Francia fervente, penitente e riconoscente”.
La repressione della Comune, insieme alle rivendicazioni degli insorti, finì relegata agli angoli della storia e sferrò un duro colpo a tutta la sinistra francese. Quel che rimase per anni fu una certa narrativa poetica che trascinò la Comune in un contesto ideale, quasi leggendario, e dunque nascosto ma affascinante. Una narrativa che va da Victor Hugo ad Arthur Rimbaud e che racconta così le combattenti della Comune:
Elles ont pâli, merveilleuses,
Au grand soleil d’amour chargé,
Sur le bronze des mitrailleuses,
A’ travers Paris insurgé!
Quel che resta difficile ma stimolante per storici e appassionati, è cercare di collocare la Comune e i comunardi all’interno di una definizione politica quanto più chiara e possibile.
Alcune caratteristiche, quali la mancanza di un leader e di un partito a guidare gli insorti, rendono la Comune una rivolta unica nel suo genere.
La Parigi del 1871 è una città variegata e stratificata, con una classe borghese già affermata e un proletariato articolatissimo. Tra i comunardi ci sono gli internazionalisti, i socialisti e gli anarchici, questi ultimi sono ispirati da Proudhon, morto sei anni prima ma ancora molto popolare in Francia. In un altro schieramento più radicale e maggioritario ci sono i marxisti, i giacobini e i blanquisti, a guidarli è soprattutto Auguste Blanqui che al tempo della Comune è in prigione ma è considerato da Marx come la mente e il cuore del proletariato francese. Il movimento era così stratificato che sarebbe stato difficile trovare una sola mente pensante a guidare gli insorti. Inoltre, la figura sembrava proprio mancare, il giacobino Delescluze era troppo vecchio e Blanqui era in carcere; c’era poi Louise Michel che diventerà figura di spicco del femminismo francese ma per quanto si dichiarassero progressisti i vertici della Comune non erano disposti ad avere come capo una donna.
Ci fu poi un affascinante conflitto ideologico tra i comunardi che si verificò anche nei fatti dei due mesi di autogoverno e nelle parole dei teorici della rivoluzione del tempo.
Il 15 maggio del 1871, a sette giorni dalla Settimana di Sangue, la maggioranza giacobina e blanquista si scagliò contro una minoranza anarchica, socialista e libertaria. Lo scontro fu solo verbale ma molto acceso, il blanquista Rigault arrivò ad auspicare, nelle sue memorie, “il momento di far cadere qualche testa fra gli internazionalisti”. La minoranza socialista denunciò il rischio di una deriva autoritaria della maggioranza giacobina e li definì come “nuovi girondini”. L’arrivo dell’esercito di Thiers a Parigi comunque marginalizzò lo scontro.
Il conflitto fu dunque fattuale e spinge gli studiosi a chiedersi se la Comune di Parigi verta più verso quel modello anarchico, federale e antistatalista ispirato dal popolarissimo Proudhon o verso una centralizzazione statale giacobina e comunista. Dopotutto, la Dichiarazione al Popolo francese del 19 aprile, unico testo rilasciato per chiarire il programma politico della Comune, è un testo scritto a due mani: dal proudhoniano Pierre Denis e dal giacobino Delescluze. Nel testo l’importanza dell’autonomia comunale è “estesa a tutte le città della Francia e garante dei diritti di tutti i cittadini”, allo stesso tempo si riconosce il “rafforzamento della Repubblica francese, unica forma di governo compatibile con il diritto dei popoli”.
L’incontro fra le due tendenze venne definito da Marx come il punto di partenza della rigenerazione della Francia.
Autore: Giorgio Nieloud
Articolo tratto interamente da La Città Futura
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