Articolo da Pressenza
Il 21 Marzo è la giornata di una ricorrenza importante: importante per il suo significato, per i valori ai quali allude; ma importante anche per la sua attualità, per le battaglie, che purtroppo non sono relegate al passato, alle quali richiama. Il 21 Marzo è infatti la giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, istituita dalle Nazioni Unite nel 1966 con l’adozione della risoluzione dell’Assemblea Generale 2142 (XXI) del 26 ottobre di quell’anno. La risoluzione è importante, perché mette in luce le gravi implicazioni, sia sulla pace e la sicurezza internazionale, sia sui diritti umani e lo sviluppo umano, associate al razzismo, alla xenofobia, alla discriminazione razziale in tutte le sue espressioni. Attesta che la discriminazione razziale e la segregazione negano i diritti umani e le libertà fondamentali e costituiscono una grave offesa alla dignità umana. Riconosce che la discriminazione e la segregazione rappresentano altresì un grave impedimento allo sviluppo economico e sociale e sono gravemente di ostacolo alla cooperazione internazionale e alla pace. Conferma infine la necessità urgente di misure ulteriori per conseguire l’obiettivo, proprio delle Nazioni Unite, della completa eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, di apartheid e di segregazione.
Ovviamente, la risoluzione non indica solo tali contenuti generali, una cornice all’interno della quale si situa la condanna di tutte le forme di razzismo, xenofobia, discriminazione su base razziale. Essa prospetta una serie di misure e di indicazioni, quali la condanna di tutte le politiche e di tutte le pratiche di discriminazione razziale, segregazione e apartheid, comprese le pratiche discriminatorie legate al colonialismo (anche questo non è ancora purtroppo del tutto retaggio del passato, come mostra il caso del Sahara Occidentale); nonché la condanna di tutte le politiche e le pratiche di discriminazione in quanto incompatibili con la Carta delle Nazioni Unite.
Sollecita l’adozione di programmi e di politiche appropriate, onde eliminare ogni forma di discriminazione razziale, a partire dalla promozione di eguali opportunità nell’istruzione e nella formazione, dal diritto di voto, dall’eguaglianza nell’amministrazione della giustizia, dall’eguaglianza delle opportunità in ambito economico e sociale e nell’accesso ai servizi sociali, senza discriminazione alcuna legata alla razza, al colore e alla provenienza etnica. Indica, ovviamente, anche l’impegno sociale e culturale per sradicare i presupposti della discriminazione, segnalando che la scuola e la cultura, la comunicazione di massa e le forme di produzione intellettuale siano dirette alla rimozione di ogni forma di pregiudizio e di ideologie mistificatorie, tra le quali, in primo luogo, tutte quelle legate a qualsivoglia presunta “superiorità razziale” (che potremmo leggere sia nel senso storico di discriminazione su base etnica, sia nel senso attuale delle cosiddette teorie suprematiste). Nel solo 2019, casi di propaganda legati alle teorie di supremazia bianca negli Stati Uniti sono aumentati del 120%.
Come indicato in apertura, la risoluzione proclama il 21 Marzo giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale. La scelta della data non è casuale: si celebra, infatti, ogni anno nella ricorrenza del giorno in cui la polizia di Sharpeville, in Sudafrica, aprì il fuoco e uccise 69 persone nel corso di una manifestazione pacifica contro le “pass laws” (1960) del regime dell’apartheid, poi anche note come Urban Areas Act, una specie di passaporto interno per segregare la popolazione nera. Nel 1973, l’Assemblea Generale ha istituito, con risoluzione 3057, il decennio di azione per combattere il razzismo e la discriminazione razziale, allo scopo di «intensificare e ampliare gli sforzi per sradicare rapidamente il razzismo e la discriminazione».
Se è vero, da una parte, che in molti Paesi norme e pratiche razziste e discriminatorie sono state formalmente abolite, è altrettanto vero, dall’altra, che la pratica e la quotidianità troppe volte smentiscono i provvedimenti adottati in linea teorica o in via formale. Oggi, ad esempio, la Convenzione Internazionale sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, il trattato internazionale delle Nazioni Unite che rappresenta uno dei principali strumenti internazionali di lotta al razzismo, che impegna i contraenti a eliminare la discriminazione e ad introdurre leggi che vietino l’incitamento all’odio, la discriminazione e l’appartenenza a organizzazioni razziste, non è ancora giunta alla ratifica “universale”, e tornano alla ribalta la rilegittimazione di discorsi e pratiche di supremazia e di discriminazione su base razziale e la violenza spesso associata a tali presupposti.
Pensiamo ancora agli Stati Uniti, che hanno conosciuto un esteso e radicato sistema di segregazione razziale, al punto che solo nel 1988 fu approvato il Civil Rights Restoration Act con cui si impone ai soggetti beneficiari di fondi federali di applicare le leggi sui diritti civili in ogni campo, non solo nel particolare programma per il quale tali fondi sono assegnati (vale la pena ricordare che l’allora presidente, Ronald Reagan, impose il veto, il primo su un provvedimento riguardante i diritti civili dai tempi del veto di Andrew Johnson sul Civil Rights Act del 1866, e Donald Trump, diversi anni dopo, sarebbe stato “associato” proprio alla figura di Andrew Johnson). Ma pensiamo anche al vento che, in tanta parte d’Europa, ha ripreso a soffiare: una delle più recenti e accurate ricerche in tal senso («Project Implicit», Università di Harvard, Cambridge, MA) ha mostrato come l’Italia, ad esempio, sia il Paese dove più forte è il pregiudizio razziale tra tutti i Paesi dell’Europa Occidentale.
Del resto, proprio l’Italia, per un verso, e la Convenzione Internazionale per la eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, sono salite nuovamente agli onori delle cronache negli ultimi giorni, all’indomani della sentenza emessa dalla Corte di Cassazione contro un provvedimento assunto alcuni anni fa dal Comune di Alassio, in provincia di Savona. Una vicenda, per molti versi, esemplare. Nel 2015, infatti, il Comune di Alassio aveva deciso, utilizzando lo strumento dell’ordinanza sindacale, con l’appoggio della maggioranza del Consiglio Comunale, di impedire l’ingresso nel territorio del Comune (con riferimento ai migranti) in assenza di «regolare certificato sanitario attestante la negatività da malattie infettive e trasmissibili».
Come riportato nella sentenza, si addebita al sindaco «di avere diffuso, mediante una ordinanza in data 1 Luglio 2015, idee fondate sulla superiorità razziale o di avere compiuto atti di discriminazione razziale. Il contenuto del provvedimento faceva divieto a persone prive di fissa dimora provenienti dall’area africana o sudamericana, se non in possesso di certificazione sanitaria attestante l’esenzione da malattie trasmissibili, di insediarsi sul territorio del Comune di Alassio». «Così l’ordinanza aveva determinato una discriminazione nei confronti dei soggetti privi di fissa dimora e che non risultavano assistiti dal servizio sanitario nazionale, soggetti a cui era riservato un trattamento deteriore e di fatto “una esclusione”, rispetto ad altri soggetti, in violazione del principio di eguaglianza». […] «Il pericolo della diffusione di eventuali malattie non si sarebbe in ogni caso scongiurato ricorrendo all’ordinanza in questione, né inibendo a cittadini africani o sudamericani di insediarsi sul territorio piuttosto che ad altri cittadini italiani o stranieri, in transito nel medesimo spazio geografico».
È ancora la sentenza a puntualizzare che «la finalità discriminatoria è stata dunque collegata, richiamando un insussistente pericolo sanitario e un rischio specifico, ai soli soggetti provenienti dalle zone geografiche delimitate (Africa e America Latina). A costoro, se privi di fissa dimora, era, infatti, inibito di stazionare sul territorio del Comune in mancanza di una attestazione della ASL che ne certificasse le condizioni di salute. I soggetti anzidetti, tuttavia, non avrebbero potuto conseguire quella certificazione non godendo, tra l’altro, dei servizi erogati dal Servizio Sanitario Nazionale. Si è pertanto realizzata una forma di discriminazione, attraverso un atto amministrativo, su pura base razziale, senza spiegare, né indicare la ragione per la quale i soli soggetti aventi quella etnia dovessero essere “pericolosi” per la salute pubblica e si è richiesta, per il superamento, una prova irrealizzabile … non potendo le ASL rilasciare certificazioni aventi quel contenuto».
Autore: Gianmarco Pisa
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