lunedì 23 novembre 2020

Terremoto del 1980: ricordi di un professore di sismologia

 


Articolo da Blog INGVterremoti

Tra i sismologi più attivi nello studio del terremoto del 1980 c’è certamente Aldo Zollo, oggi professore di Sismologia all’Università di Napoli, a cui abbiamo chiesto di raccontarci come aveva vissuto quel momento e come questo avesse influenzato il suo percorso scientifico.

Era domenica pomeriggio tardi, rientravo in vespa percorrendo il corso Vittorio Emanuele a Napoli, nella sua parte più panoramica che guarda al golfo di Napoli ed al Vesuvio. Una sera di novembre, neanche troppo fredda, di quelle domeniche in cui può piacere scarrozzare in moto senza una meta fissa.

Salgo le scale che portano al monolocale dove vivevo, il vicino del piano di sopra si precipita giù vedendomi arrivare: “Il terremoto, il terremoto, fuggiamo via, …” Era completamente assalito dal panico. A grandi passi entro nella mia stanza, vedo il neon al soffitto che ancora oscillava, la luce che andava e veniva nella stanza.

Il mio primo terremoto l’ho vissuto così, a cose ormai fatte, senza averne percepito lo scuotimento forte e lungo, solo attraverso la paura delle persone che mi hanno raccontato la loro esperienza di mancamento del suolo dovuto ad una vibrazione lenta, ampia e interminabile.

Nel 1980 ero studente universitario, ai primi anni del corso di laurea in Fisica, studi che avevo intrapreso per una passione neanche troppo nascosta per le scienze della Terra e per la Fisica Terrestre, in particolare. Qualche anno dopo, mi sono laureato con una tesi sui meccanismi di innesco dei terremoti e proprietà statistiche delle sequenze sismiche, supervisionata da Roberto Scarpa e ispirata dalle lezioni tenute da sismologi del calibro di Hiroo Kanamori, Keiiti Aki e Raoul Madariaga che ebbi la fortuna di seguire, insieme a tanti giovani studenti e ricercatori europei, alla Scuola Internazionale di Fisica di Varenna del 1982 organizzata da Enzo Boschi, allora giovane e brillante Presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica.

Ma il mio incontro ravvicinato con il terremoto dell’Irpinia accadde nuovamente qualche anno più tardi alla fine degli anni ’80. Quando con una borsa di studio europea mi trasferii in Francia all’Istituto di Fisica del Globo di Parigi per svolgere attività di ricerca nell’ambito della tesi di Dottorato, sotto la direzione scientifica di Pascal Bernard e Raoul Madariaga.

Pascal da qualche mese aveva cominciato a lavorare alla teoria delle isocrone, poi successivamente utilizzata per costruire una tecnica, molto avanzata all’epoca, per la simulazione della radiazione sismica ad alta frequenza emessa dalle fratture sismiche durante i forti terremoti. Raoul, poi, era stato diverse volte in Italia ad incontri organizzati dall’ENEA-ENEL che operava la prima rete accelerometrica nazionale, con l’obiettivo di monitorare l’attività sismica in prossimità dei siti di realizzazione delle centrali nucleari. Da queste due coincidenze nacque l’idea della mia tesi di dottorato in Francia, cioè utilizzare i segnali accelerometrici prodotti dai forti terremoti per determinare le caratteristiche cinematiche e dinamiche delle fratture sismiche ed in particolare studiare il processo di nucleazione, propagazione ed arresto della frattura che causò il terremoto irpino, dall’analisi e modellazione dei dati della rete accelerometrica ENEA-ENEL.

Infatti, il caso volle che il terremoto dell’Irpinia sia accaduto in un’area densamente monitorata dalla rete accelerometrica dell’ENEA-ENEL. Una ventina di stazioni ENEA-ENEL lo registrarono, ben dislocate rispetto all’epicentro dell’evento e con una qualità del segnale non raggiungibile dai sensori sismici tradizionali della Rete sismica ING. Tra queste stazioni accelerometriche alcune (Bagnoli Irpino, Calitri, Sturno prossime all’epicentro del terremoto ed entro 40-60 km di distanza) hanno rilevato accelerazioni massime del moto del suolo fino a 0.38 g (dove g è l’accelerazione di gravità pari a 9.81 m/sec2), comparabili ai valori massimi registrati nel terremoto del Friuli del 1976.

In circa due anni di lavoro certosino, tra fonti bibliografiche, dati strumentali multi-disciplinari e codici di calcolo originali, abbiamo elaborato e modellato i dati accelerometrici integrati da quelli sismologici della rete locale temporanea (installata subito dopo l’evento per la registrazione delle repliche) e da quelli delle reti a più grande apertura nazionali e mondiali. I nostri modelli furono raffrontati con i dati geodetici della deformazione co-sismica del suolo, e con quelli geologici riguardanti le evidenze di fratturazione superficiale del terremoto e con i dati della struttura del volume di crosta appenninica nel quale si sono originate e sviluppate le fratture sismiche, superfici di faglia di lunghezza di svariate decine di chilometri con dislocazioni medie dell’ordine del metro. I segnali accelerometrici indicarono chiaramente che durante il terremoto si erano fratturati almeno tre segmenti di faglia a distanza temporale di circa 20 secondi l’uno dall’altro. La durata dell’intero processo di frattura del terremoto irpino (circa 40-50 secondi) in aggiunta alla sua magnitudo (Ms 6.9) è stata la causa della lunga durata del forte scuotimento del suolo che causò gravi danni all’edificato su di un’area molto vasta (100×80 km2) dell’Appennino meridionale, prevalentemente nella direzione della catena montuosa, ma con effetti anche nelle aree costiere tirrenica e adriatica.

Il terremoto irpino del 1980 ha rappresentato un punto di svolta nello sviluppo metodologico e dei sistemi di osservazione sismica nel nostro Paese, permettendo alla Scienza dei Terremoti di fare un grosso passo in avanti sulla comprensione dei fenomeni sismici e sulle strategie di mitigazione del loro impatto economico e sociale.

Di fatto, ha dato inizio ad un processo di potenziamento e di ammodernamento delle reti osservative geofisiche che ha condotto a dotare oggi il nostro Paese di una rete sismica nazionale, di una rete accelerometrica ed una rete geodetica ad acquisizione in continua per la misura del moto sismico e della deformazione del suolo. Esse coprono in modo uniforme il territorio italiano a rischio sismico elevato ed operano in tempo quasi-reale in modo da garantire in pochi minuti l’informazione relativa ad un evento sismico dalla più piccola magnitudo rilevabile dagli strumenti (M circa 2) fino alle magnitudo più elevate registrabili in Italia (M 7-7.5). Un sistema integrato, sviluppato in collaborazione scientifica e tecnologica dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, dal Dipartimento della Protezione Civile Nazionale, dalle Università e dagli enti regionali. Con un numero totale prossimo ai 1000 nodi ed una spaziatura media di meno di 30 km tra stazioni adiacenti, la densità delle reti osservative sismica e accelerometrica italiana è oggi confrontabile con quella delle reti sismiche equivalenti in Giappone e tra le più avanzate nel mondo.


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Fonte: Blog INGVterremoti


Autore: Aldo Zollo 

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Articolo tratto interamente da Blog INGVterremoti



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