lunedì 23 novembre 2020

Quarant’anni dal terremoto in Irpinia



Articolo da Il lavoro culturale

Il 23 novembre di quarant’anni fa uno spaventoso terremoto colpì la Campania e la Basilicata. Continuiamo la serie di approfondimenti su quell’evento ospitando una riflessione di Stefano Ventura, autore di “Storia di una ricostruzione. L’Irpinia dopo il terremoto”, recentemente uscito per Rubbettino editore.   

2914 morti. Decine e decine di paesi cancellati. Pensando agli effetti della scossa che il 23 novembre 1980, alle ore 19 e 34, sconvolse l’Appennino meridionale, colpendo al cuore l’Irpinia e la Basilicata, sarebbe bene non dimenticare il dolore profondo di chi, allora, perse le persone più care. Le polemiche e lo sdegno che si lega nel discorso pubblico al terremoto in Irpinia devono tener conto di questo dolore, devono tener conto delle testimonianze di chi visse quei novanta secondi interminabili ed ebbe la fortuna di restare in vita, ma cambiando per sempre, inevitabilmente, la propria esistenza. E’ questo il monito che l’anniversario da cifra tonda dovrebbe tener presente.

Ciascun irpino, ciascun lucano porta dentro di sé ricordi dolorosi, lutti di persone care, familiari, amici. Eppure il discorso pubblico nazionale, anche in questo quarantesimo anniversario, sarà certamente improntato su altre questioni: lo spreco, la cattiva gestione delle finanze pubbliche, i tempi lunghi per concludere i lavori di ricostruzione. Tutti questi temi sono temi reali e storici, dati di fatto che non possono essere elusi. La ricostruzione dopo il terremoto è costata circa 32 miliardi di euro, secondo i calcoli fatti dalla Corte dei Conti pochi anni fa attualizzando da lire in euro la spesa destinata al capitolo della “ricostruzione e sviluppo” delle aree terremotate, come recitava la legge 219 del 1981.

Ma la narrazione di un evento, come il terremoto, e di un periodo lungo, come la ricostruzione, deve essere più articolata e più ampia, senza fermarsi solo a stereotipi e slogan buoni per articoli scandalistici.

Proprio la questione della memoria è un primo problema irrisolto; chi ha vissuto quei 90 secondi ricorda nel dettaglio ogni singolo particolare, lo ha isolato nel tempo, lo ha rivissuto come si fa con le scene di un film. Le testimonianze, poi, ripercorrono di solito i giorni dell’emergenza, a partire dai soccorsi in ritardo fino all’arrivo dei volontari e alla solidarietà fraterna tra italiani, una delle pagine più belle in quei giorni angosciosi. Poi si verifica un salto logico, un’omissione e un rifiuto di raccontare la ricostruzione a uso e consumo di chi ha già la risposta in tasca. Le vicende personali, le idee politiche e i giudizi qui divergono e vanno da chi ritiene che la ricostruzione sia stata comunque una grande pagina di modernizzazione e chi ritiene che, invece, sia stata una occasione persa, l’ennesima per questa parte di Sud in una lunga storia di fallimenti e sconfitte.

Il terremoto ha creato delle faglie più subdole e invisibili, quelle del rancore tra chi è stato capace di approfittare dell’occasione e di chi non ci è riuscito, tra chi prima non aveva nulla e adesso ha e tra chi prima aveva e poi ha perso quasi tutto. Forse per sanare queste fratture c’è bisogno di tempo, ci vorranno altre generazioni, una classe dirigente e professionale diversa, altri centri di azione e di pensiero.

Non appare chiaro chi gestirà e animerà, però, questi processi, se in tanti continueranno ad abbandonare le terre in cui il terremoto del 1980 seminò distruzione e dolore.

Tornando al volontariato, è forse poco evidente l’importanza dei segni e delle esperienze maturate nell’emergenza. Nell’Italia Repubblicana spesso i volontari hanno dimostrato slancio e praticità in caso di disastro, una costante che arriva fino ad oggi. Anche nell’emergenza COVID-19 i volontari hanno dato una grande mano intervenendo in sostegno e in sostituzione del servizio pubblico. Le storie dei volontari in Irpinia sono state raccolte in tanti diari, memoriali, libri e anche dai social media, ad ogni anniversario. Si può ad esempio citare la storia di Luisa Morgantini, sindacalista lombarda che partì alla volta di Teora (Avellino) per restarci poche settimane e che invece ci rimase un anno, avviando anche una cooperativa, “La metà del cielo”, con alcune ragazze giovanissime. Oppure la storia di Nora Scirè, architetto: appena laureata andò sul campo sia per dare una mano, sia per dare un contributo professionale. Infatti contribuì a ricostruire molti centri storici, scegliendo poi Laviano e Salerno come luogo di residenza per costruire una famiglia.

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Fonte: Il lavoro culturale  


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Articolo tratto interamente da Il lavoro culturale 


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