lunedì 26 giugno 2023

I veleni della Caffaro



Articolo da IrpiMedia

Da oltre vent’anni Brescia fa ancora i conti con un inquinamento ambientale rimasto impunito, nato da una fabbrica chimica costruita nel cuore della città e che ancora oggi avvelena la Provincia 

Brescia, Corte d’appello. Alle 11:58 del 13 giugno scorso gli avvocati entrano nell’aula 1-16 della sezione penale. Il caso è enorme, ma tutti sembrano quasi annoiati: nessuno si aspetta nulla. Del resto è una storia che pare ripetersi uguale a se stessa da ormai più di ventidue anni. L’ordine del giorno: nuova inchiesta di disastro ambientale, vecchio caso. Il giorno è quello dell’udienza preliminare sul dossier Caffaro, un capitolo con cui Brescia cerca di fare i conti dal 2001, anno in cui il bubbone esplode travolgendo un’intera provincia, fino a quel momento rimasta ignara di quanto terreni, acque e rogge fossero avvelenati e di quanto fosse alto il rischio per la salute delle persone.

Le porte dell’aula al piano interrato del palazzo di giustizia restano chiuse. È un’area quasi asettica, ma mentre dalle scale arrivano le chiacchiere e il tintinnio delle tazzine di caffè, consumati ai tavolini del bar, sul banco degli imputati ci sono le responsabilità. Che restano ancora una volta sospese nei corridoi del Tribunale. «Se ne riparla il 26 settembre», è la sentenza spiccia e laconica degli avvocati di parte, quasi felici di essersi lasciati alle spalle una tappa giudiziaria che sapevano che non avrebbe consegnato loro risposte decisive. A dire il vero, un effetto sorpresa – lieve per qualcuno, assai più sconcertante per altri – c’è stato: il silenzio delle istituzioni, che hanno deciso di non costituirsi come parte civile nel procedimento penale in cui la città e i suoi abitanti sono la prima parte lesa. Non lo ha fatto il Comune, non lo ha fatto la Provincia, non lo ha fatto la Regione e non il ministero dell’Ambiente. I cittadini restano, ancora una volta, senza voce in un processo che pare non finire mai.

È una storia che ha lasciato finora ferite profonde a Brescia, della quale si è parlato a fasi alterne e che per anni si è preferito cercare di non vedere.

Nel 2021 è stato aperto un nuovo filone d’inchiesta che ha riacceso i riflettori sulla fabbrica diventata ormai un simbolo complesso e doloroso per la città, spesso rimasta all’ombra di altri casi di disastro ambientale che hanno destato più clamore nel resto d’Italia. Eppure il danno e i veleni che lo hanno causato rappresentano un unicum: si tratta di un cocktail di inquinanti della peggior specie, dai Pcb (i policlorobifenili, confinati poi nell’elenco delle sostanze cancerogene) al cromo esavalente, dal mercurio ai metalli pesanti. Tutte sostanze tossiche che nel secondo capoluogo lombardo sono presenti oggi come allora, perché la bonifica, ventidue anni dopo, ancora non c’è. Quello che resta è invece un’infestazione che ha viaggiato fino a 22 chilometri a sud dell’epicentro della contaminazione: la fabbrica, appunto.

L’azienda nasce con il nome Società Chimica ed Elettrochimica del Caffaro nel 1906. Viene costruita a novecento metri dal centro storico di Brescia, a ridosso di una scuola elementare e delle case di una zona chiamata borgo San Giovanni, ma che in realtà intreccia almeno altri tre quartieri: Fiumicello, Primo Maggio e Porta Milano, uno spazio in cui oggi vivono circa 25 mila persone. Si tratta della prima azienda chimica della città e viene concepita come una cittadella industriale che si è estesa negli anni fino a ricoprire 110 mila metri quadrati, incastonata fra tre vie.

Negli anni d’oro Caffaro ha impiegato fino a mille persone per produrre soda caustica, altri prodotti derivati dal cloro e Pcb, una sostanza considerata all’epoca un efficace lubrificante e un ottimo isolante termico. Solo decenni più tardi si è confermato che fosse un prodotto nocivo e la produzione fu interrotta nel 1984: per circa cinquant’anni, però, Brescia lo aveva non solo prodotto, ma anche assorbito. Perché i Pcb non si distruggono: persistono, si appiccicano e si annidano. Dall’azienda, ben presto soprannominata “la fabbrica dei veleni”, ne sono fuoriuscite 150 tonnellate. E sono ancora tutte lì. I reflui sono stati riversati nel terreno e nelle canaline di scarico che poi fioccavano nei sottili canali che vanno a irrigare la provincia padana. I veleni invisibili si sono presi così ettari di campi e chilometri quadrati di spazi, mentre intorno allo stabilimento la città continuava la sua routine: case, negozi, parchi, famiglie, anziani, bambini.

I magnati della chimica

Il primo a ipotizzare il disastro è stato lo storico ambientalista Marino Ruzzenenti, che nel suo libro Un secolo di cloro e… Pcb – Storie delle industrie Caffaro di Brescia (Jaca Book, Milano 2001) ha svelato quello che per decenni in molti hanno solo sussurrato a bassissima voce, mantenendo sottotraccia il lato oscuro della chimica. «Si sono persi ventidue anni in cui sostanzialmente non si è fatto nulla – sottolinea – anzi, lo stabilimento è stato completamente abbandonato e ha proseguito a inquinare imperterrito davanti ai nostri occhi: parliamo di cromo esavalente, di mercurio, di diossine, di Pcb». Sono trascorsi quasi quarant’anni dalla fine della produzione di policlorobifenili, eppure quelle sostanze – che una ricerca dell’Istituto Mario Negri ha certificato che, negli anni, mutano e generano nuove specie di cui nessuno conosce gli effetti – continuano ad avvelenare Brescia.

Quando tutto ha inizio siamo nell’agosto 2001: si parla di «Seveso bis» e di «altissime concentrazioni di Pcb». Si inaugura per la città una interminabile stagione di analisi, studi, divieti, attese e paure: nel sangue di chi abita nei dintorni della fabbrica si riscontrano concentrazioni di policlorobifenili fino a 340 nanogrammi per millilitro. Quasi immediatamente si tenta di circoscrivere il sito contaminato, si scopre che ad essere infestato non è solo il terreno nelle vicinanze dello stabilimento in piena città, ma anche quello di alcuni Comuni della provincia, costellata di discariche di cui la vecchia Chimica si è servita.

Il perimetro da un lato, la preoccupazione dall’altro, si allargano di pari passo. All’area della fabbrica si aggiungono campi, cascine, rogge, acque superficiali. La paura fa spazio alle richieste di danni e alle denunce di inquinamento e di reati contro la pubblica amministrazione: in prima fila ci sono i residenti di quello che è presto ribattezzato “il quadrilatero del Pcb”. Il 24 febbraio 2003 – dopo quasi due anni di indagini – nasce il Sito di interesse nazionale Brescia-Caffaro e si comincia a studiare il recupero ambientale per cui il ministero dell’Ambiente stanzia una cifra irrisoria: 6,7 milioni di euro. Agli agricoltori viene tolto tutto, i parchi e i giardini che incorniciano la cittadella industriale vengono chiusi per inquinamento, inizia il calvario delle conferenze dei servizi.

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Fonte: 
IrpiMedia


Autore: Laura Fasani - Nuri Fatolahzadeh

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Articolo tratto interamente da IrpiMedia



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