sabato 1 aprile 2023

Il revisionismo storico della destra

Bundesarchiv Bild 101I-312-0983-03, Rom, Festnahme von Zivilisten


Articolo da la Sinistra quotidiana

La prima parola che mi viene in mente per significare il tutto è spudoratezza. Ma poi, a dire il vero, ne seguono molte altre. Ne faccio una breve rassegna che comprende pure qualche binomio: spregiudicatezza, spudoratezza, voluta ignoranza, revisionismo e negazionismo storici, convenienza politica, coerenza postfascista, nostalgismo, inaderenza costituzionale, aridità, supponenza, menzogna, falsità.

Se noi mettessimo a capo di un esercito in stile prussiano un uomo come Ghandi, chiunque noterebbe la contraddizione, sarebbe palesissima la dicotomia, la enorme iperbole che si andrebbe figurando anche soltanto in forma di ipotesi, appunto, per assurdo. Così pure se noi facessimo di Gramsci un teorico del fascismo, della restaurazione degli antichi e fatali destini della Roma imperiale tante amata dal regime di Mussolini, ci troveremmo nuovamente dentro un iperbolismo paradossale piuttosto che nell’esercizio di un revisionismo storico sottile e pericoloso.

Così, oggi, se pensiamo alla seconda carica dello Stato italiano, alla Presidenza del Senato della Repubblica, e la immaginiamo per quello che è, ricoperta da un postfascista come Ignazio La Russa, sarebbe un sollievo per un attimo cullarsi nell’illusione di essere proprio all’interno di una distopia politico-istituzionale, di una specie di vuoto cosmico, di assenza di gravità costituzionale, di persistenza nell’esagerazione iperbolica.

Invece, purtroppo, disgraziatamente siamo nella realtà: perché grazie a leggi elettorali incostituzionali, le forze politiche di molte parti e molti colori, da anni arrivano a governare il Paese con maggioranze artefatte, artificiose, lontane dalla volontà popolare numericamente espressa nella scelta delle liste presenti sulle schede: a partito più grande si danno ancora più seggi e a partito più piccolo un calcio nel posteriore e fuori dal Parlamento con anatemizzante ignominia.

Un po’ tante sono le condizioni che permettono alle destre di fare la voce grossa contro la Costituzione, pur giurandovi sopra; contro la democrazia, pur affermando di adorarla; contro la Storia stessa, pur asserendo di esserne i più fedeli interpreti in questa modernità che esigerebbe un ulteriore passo e salto in avanti rispetto a quell’inizio di pacificazione e di unità memoriale del passato novecentesco che invece, più che legittimamente, dovrebbe essere divisivo e rimarcare sempre chi sta dalla parte dei valori resistenziali e dell’antifascismo, su cui la Repubblica si fonda, e chi invece pensa che si dovrebbe alterare questo equilibrio.

Le destre pensano che questo status quo, stabilito dall’Assemblea costituente nel corso dei suoi lavori, tra il 1946 e la fine del 1947 senza la presenza di alcuna forza che si richiamasse apertamente al fascismo appena sconfitto, debba essere oggetto di revisione e, per supportare al meglio un processo di lenta erosione delle fondamenta democratiche dello Stato, portanto il Paese verso quel presidenzialismo che, associato alla dissociativa e divisiva controfiforma calderoliana sull’autonomia differenziata, darebbe seguito ad un corto circuito di particolarismi difficile da fermare.

Le parole del Presidente del Senato e della Presidente del Consiglio sui fatti del 1944 accaduto in Roma, tra via Rasella e le Cave Ardeatine, si inquadrano perfettamente nel filone della involuzione anticivile, antidemocratica e a-costituzionale di una destra di governo che mette insieme una serie di comportamenti e di dichiarazioni che formano, alla fine, un grande oltraggio alla memoria, alla Storia, alla distinzione tra vittime e carnefici, tra antifascisti e fascisti, tra partigiani e nazifascisti, tra chi ha permesso la rinascita della nazione dopo venti e più anni di criminale dittatura mussoliniana.

La gravità delle affermazioni di Meloni sui criteri di scelta degli uomini da mandare al massacro omicidiario voluto da Hitler, eseguito da Kappler e dai suoi accoliti servitori della repubblichina di Salò, non riguarda solamente il piano storico ma anche quello politico: un esponente di governo dovrebbe essere il primo a tramandare i valori su cui l’Italia si è rifondata a metà del Novecento e che, tutt’ora, permettono nella più ampia libertà di parola anche a chi vuole dire le peggiori sciocchezze.

Quando ancora era inimmaginabile che una carica dello Stato potesse essere interpretata pro tempore da un ex o post-fascista, quando cioè era viva la vergona del dirsi fascisti e del farlo sapere, a parte i militanti esagitati dell’MSI, e pertanto quando la maggior parte di chi votava per la fiamma tricolore (presente nel simbolo di Fratelli d’Italia…) lo faceva davvero nel segreto segretissimo dell’urna, capitò a Vittorio Foa di trovarsi in un dibattito televisivo con davanti il senatore Giorgio Pisanò, nostalgicissimo del ventennio.

Pisanò inanellava già allora discorsi sulla pacificazione, sull’evidenza di una condivisione di valori che prescindessero tanto dal fascismo quanto dall’antifascismo e finì, inevitabilmente, sul tema dei vivi e dei morti e del rispetto equanime che gli si doveva: storicamente, politicamente, eticamente.

Vittorio Foa, che può ben essere considerato uno dei padri costituenti, uno dei fondatori della Repubblica Italiana, gli si rivolse con una arguzia unica e lo apostrofò così: «I morti sono morti: rispettiamoli tutti. Ma se si parla di quando erano vivi, erano diversi. Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore».

Basterebbe questo aneddoto gustoso a far capire quale differenza passa tra antifascisti e fascisti, di ieri e di oggi. Ma siccome la protervia lisergica delle destre vuole rimestare nel torbido, incistare la verità su un aggrovigliamento di interpretazioni che fuorviano dai fatti e danno seguito ad un substrato disarmante di alterità, di controvertibilità della Storia nel nome del superamento delle ideologie prima e delle incrostazioni divisive poi, non è possibile pensare di lottare contro tutto questo solo con l’appello alla ragionevolezza, alla buona fede e alla corretta enunciazione degli accadimenti.

Quando le destre ci parlano, siamo in prensenza di qualcosa di più della sempliciotta propaganda elettorale e governativa: siamo nella malafede appressa durante la storia del bugiardismo missino, coltivata nell’altro ventennio, quello berlusconiano.

Ci troviamo a difendere prima di tutto l’oggettività, la fattualità di quello che ci capita, per smentire una serie di frustrazioni e repressioni personali e collettive che guardano alla religione come ad un culto quasi di superiorità morale, ad uno Stato etico se si discute di diritti civili e di libertà personali, ad un intendimento del nucleo familiare come ad una naturalità che prescinde dagli affetti e che li contempla solo se c’è uno ius sanguinis alla base del vivere (in)civile.

Articolo tratto interamente da la Sinistra quotidiana 

Photo credit Bundesarchiv, Bild 101I-312-0983-03 / Koch / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE, attraverso Wikimedia Commons


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