Articolo da Cultweek
Quaranta anni, diversi remake – un sequel in circolazione adesso – e non mostrarli. Parliamo di un classico dell’horror firmato da Carpenter ‘Halloween – La notte delle streghe’ che continua a tenerci inchiodati con il cuore che batte forte e una tensione che non ci lascia. La ricetta? La banalità del male.
Se si guarda indietro alla storia del cinema del terrore, due sono da sempre le strade battute da narratori, registi e professionisti della paura. La prima è quella del soprannaturale, fatta di cupe dimensioni parallele e incursioni nel fantasy, popolata da spaventose creature dalla valenza più o meno metaforica. È la via dell’horror “buono”, viaggio dell’eroe nella sua accezione più dark, ma sempre destinato a concludersi, allo spuntare del nuovo giorno, con un ritorno alla normalità e al salvifico happy ending. Lo spettatore affronta sì le sue fobie, ma ben confinate in un mondo straordinario che nulla ha a che vedere con il quotidiano. In una sorta di tacito patto con il pubblico, la paura si fa intrattenimento puro, la sala diviene per due ore la più classica delle case stregate da luna park. Lo spavento è improvviso e fa quasi sorridere, dura l’istante di un salto sulla poltrona e al riaccendersi delle luci non lo ricordi più.
Ma c’è un filone più subdolo, strisciante, il cui filo rosso (sangue) parte dalle coltellate sotto la doccia del Norman Bates di Psycho e arriva fino alle trasposizioni cinematografiche dai romanzi di Stephen King. È l’orrore dell’ordinario,
l’anima nera che si annida in ogni salotto, ogni sorriso, ogni finestra
illuminata a festa: una prigione senza sbarre, in cui il pericolo è
ovunque e viene da chiunque, senza apparente via di fuga. Ed è lì,
rannicchiato dietro al letto o nella penombra del ripostiglio, che si
nasconde il vero mostro, quello di cui sotto sotto è impossibile
liberarsi per davvero.
Cos’è che ci fa tanta paura in Halloween – La notte delle streghe di John Carpenter,
al punto di renderlo ancora oggi uno dei film più citati (se non il
vero e proprio capostipite) nel panorama del thriller e degli slasher movies?
Girato nel 1978 con un cast e un investimento da pellicola amatoriale,
il capolavoro di Carpenter è quel che si definisce un miracolo
cinematografico, che ha incassato oltre 70 milioni di dollari al
botteghino a fronte di una spesa di soli trecentomila, e lanciato di
fatto la carriera sul grande schermo di una giovanissima Jamie Lee Curtis.
Un miracolo inaspettato per tutti, meno che per il suo geniale regista,
capace di comporsi da sé una colonna sonora diventata immediatamente un
cult, e di trasformare la mancanza di luci per questioni di budget
nella terrificante penombra che avvolge i personaggi, o una vecchia
maschera di carnevale da Capitano Kirk di Star Trek (opportunamente ridipinta) nell’icona immortale del killer senza volto.
Forse è proprio in questo che si nasconde il segreto del successo e dell’efficacia di Halloween, di cui è in circolazione un sequel con alcuni degli stessi protagonisti (Jamie Lee Curtis e Nick Castle), stavolta scritto e diretto da David Gordon Green, undicesimo film ispirato all’ormai classico di Carpenter: a quarant’anni dalla sua realizzazione è la
banalità di un male che non ha nulla di fantastico o spettacolare,
senza alcuna motivazione recondita se non il male stesso, che agisce
nell’indifferenza voyeuristica e distaccata di chi sta attorno. Per
l’America che in quegli anni scopriva piuttosto il gusto per il
giustiziere al di sopra della legge alla Charles Bronson o Clint
Eastwood, la pellicola di Carpenter fu un campanello d’allarme: cosa
succederebbe se ad avere (letteralmente) il coltello dalla parte del
manico non fosse più il “buono”, l’eroe, ma la sua inarrestabile nemesi?
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Fonte: Cultweek
Autore: Stefano Benedetti
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Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia.
Articolo tratto interamente da Cultweek
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Ho visto solo Halloween-20 anni dopo, e mi è piaciuto.
RispondiEliminaUn capolavoro.
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