Articolo da OggiScienza
“Se di novembre tuona, l’annata sarà buona”, “Novembre bagnato, in aprile fieno al prato”, “Per ognissanti, mantello e guanti”… Si potrebbe continuare a lungo, la lista di proverbi e perle di saggezza popolare legati alle stagioni e al lavoro nei campi, che affollano la nostra lingua e i nostri dialetti è ricca e variegata, quanto multiforme è lo scenario di ambienti e eredità culturali dell’Italia.
Per generazioni di agricoltori, allevatori, mondine, boscaioli, questi
detti hanno funzionato come efficientissimi, concentrati vademecum per
orientarsi tra le insidie del tempo e delle virate tra una stagione e
l’altra.
Forse sarebbe il caso di iniziare a riflettere seriamente su come fare
per preservare questo patrimonio, non solo per il rischio di perderne
memoria, per una tutela culturale o non solo in termini puramente
simbolici.
C’è infatti da chiedersi se ha ancora lo stesso significato recitare
oggi l’adagio “A San Martino ogni mosto diventa vino”. Basterebbe una
visita in qualunque vigna italiana per rendersi conto che no, novembre
non ogni anno è necessariamente il mese della vendemmia e del vino
novello, e che la causa di queste stranezze, che si impongono sempre più
velocemente come la norma, è facilmente intuibile.
È questa la constatazione a cui giunge, o meglio da cui parte Roberto Mezzalama nel suo “Il clima che cambia l’Italia”, pubblicato da Einaudi, un saggio che affronta di petto gli effetti del cambiamento climatico, che non solo sono ben visibili da diversi anni anche qui da noi, anche se riconosciuti ancora a fatica, se non con riluttanza, ma che nel nostro paese hanno già presentato la prima parte di un conto che si prospetta salatissimo.
Né altrove, né in futuro, ma qui e ora
“Responsabilità comuni ma differenti” è un’espressione piuttosto
accurata per descrivere la nostra attuale situazione, come specie, di
fronte alla crisi ambientale che si fa sempre più manifesta e
impellente.
Questa sintesi così efficace, sebbene pensata in “burocratese”, è stata
formulata in occasione della COP21, la conferenza delle parti sul clima
del 2015 da cui sono scaturiti gli storici accordi di Parigi sul
cambiamento climatico, i primi vincolanti giuridicamente. Per quanto
convincente – evoluzione degli accordi 2015 a parte – a questa
affermazione non sembra abbia fatto seguito una crescita di
consapevolezza altrettanto incisiva, o comunque non ancora sufficiente.
Del resto, come ricorda Amitav Ghosh nel suo “La grande cecità” (Neri
Pozza Editore, 2017), una delle più grandi difficoltà delle nostre
società moderne sta nel non riuscire a riconoscere e raccontare i molti
aspetti differenti del presente, che attraverso gli eventi climatici
odierni si manifesta come un distillato della storia umana e del suo
rapporto con il pianeta.
In questo senso, il libro di Mezzalama, esperto di ingegneria ambientale e di cambiamenti climatici, con all’attivo diverse collaborazioni accademiche, dal Politecnico di Torino all’Università di Harvard, riesce a soddisfare l’esigenza di un’attenzione alle differenze territoriali unendola a una visione più ampia, globale. Senza perdersi in eccessive premesse di tipo teorico, l’autore ci conduce subito in un viaggio nella penisola, dal momento che si tratta di un problema del “qui e ora” e non una minaccia in un altrove di un imprecisato futuro.
Dalle cime alpine, scendendo fino ai livelli della pianura alluvionale del Po e della laguna veneziana, incontriamo alcuni dei testimoni e, soprattutto, delle prime vittime dei violenti eventi cosiddetti estremi, riconducibili al riscaldamento globale: gli albergatori e i gestori delle piste sciistiche che hanno visto assottigliarsi le stagioni turistiche insieme ai ghiacciai del Monte Bianco, dove le guide alpine lamentano che oramai non si riesce più ad accompagnare i clienti fino a Chamonix con gli sci ai piedi, visto che – per dire solo del Monte Bianco – dalla Val Veny alla Val Ferret si sono persi in sette anni l’equivalente di trecento campi da calcio di ghiaccio; oppure i boscaioli e i liutai della Val di Fiemme, privati all’improvviso di otto milioni di metri cubi di legno, preziosa materia prima di una secolare tradizione manifatturiera di tavole armoniche per strumenti musicali, a causa della tempesta Vaia, il ciclone extratropicale alimentato nell’ottobre del 2018 da un Mediterraneo insolitamente più caldo, che dal Golfo di Genova si è scatenato sul Nord Italia.
In effetti, i commenti e le impressioni di chi ha vissuto e sta vivendo in prima linea queste devastazioni riescono, con forza, a farci risvegliare in un presente che non ammette più distrazioni sul fronte climatico. Tuttavia, se questo presente così tormentato è un condensato dei passi fatti finora dalle nostre società, torna utile guardare anche al passato per prepararsi meglio a resistere a queste trasformazioni così impattanti.
Così, in questo particolare Grand tour nel bel Paese del cambiamento climatico riusciamo a incontrare grandi personaggi della storia più recente dell’Italia, che tanto possono dirci sui mutamenti drammatici del nostro paesaggio, come Achille Compagnoni e Walter Bonatti, mitici scalatori di vette ormai scomparse, letteralmente sbriciolate dalle escursioni termiche, o anche, andando più indietro, Antonio Stradivari, abile selezionatore dei legni più adatti per i suoi violini, Ludovico il Moro e Leonardo Da Vinci, in parte protagonisti di una imponente rivoluzione agricola, quella delle risaie, che sarebbe cresciuta e durata fino al secolo scorso, quando si è cominciato a registrare qualche crepa in un equilibrio che sembrava poter rimanere immutabile, oltre che florido.
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Fonte: OggiScienza
Autore: Marco Milano
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Articolo tratto interamente da OggiScienza
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