Articolo da Effimera
Secondo una ricerca internazionale riferita a ben 101 paesi, fra il 2006 e il 2020 si è registrato un notevole incremento delle proteste. Ma esse sono state quasi sempre ignorate o duramente represse dai poteri pubblici, dai privati che difendono lo status quo in tutti i campi. La questione più grave è che in effetti manca, ovunque, una riconosciuta rappresentanza politica anti-liberista di tali proteste.
La ricerca, World Protests. A Study of Key Protest Issues in the 21st Century, condotta da Isabel Ortiz, Sara Burke, Mohamed Berrada e Hernán Saenz Cortés e pubblicata nel novembre 2021 da Palgrave-MacMillan (si può scaricare gratuitamente qui), segnala che dal 2006 a oggi il numero dei movimenti di protesta nel mondo è più che triplicato. Come negli anni 1848, 1917 o 1968 “quando un gran numero di persone si sono rivoltate per chiedere il cambiamento”. “È il fallimento della democrazia reale”, scrivono gli autori.
La ricerca è stata finanziata dal team del think tank tedesco Friedrich-Ebert-Stiftung (FES) e da Initiative for Policy Dialogue, due istituzioni socialdemocratiche – pacifiste ma non liberiste – che si collocano presso la Columbia University. Questo studio si aggiunge a una crescente letteratura sull’aumento continuo delle proteste nel pianeta. Il libro racconta il lavoro di questi 4 ricercatori, è un censimento di 2.809 proteste attuate da circa 900 movimenti, in 101 paesi di tutti i continenti, coprendo 93% della popolazione mondiale durante il periodo dal 2006 al 2020. Ricordiamo che anche prima del 2006 ci sono state grandi proteste, fra le quali sono rimaste celebri Seattle (1999, contro il WTO) e Genova (2001, contro il G8).
Il termine protesta comprende, ai fini della ricerca, ogni sorta di lotta, manifestazione, sciopero, rivolta, quindi tutto ciò che sarebbe opportuno chiamare resistenza contro le diverse scelte liberiste, contro le pratiche messe in opera dai poteri pubblici e privati. La ricerca, ovviamente, non è esaustiva, non potendo censire tutte le piccole e medie lotte (o rivolte, o resistenze) che ci sono state nei 15 anni compresi fra il 2006 e il 2020. Altri studi hanno comunque segnalato che il numero complessivo delle proteste legate al Black Lives Matter è stato di quasi 12.000, unicamente nel 2020!
Vedremo più sotto come il merito di questa ricerca stia soprattutto nell’ampio dettagliato censimento, pur se solo macro-quantitativo, delle proteste; manca – e questo è un limite – l’osservazione partecipante e le considerazioni conclusive risultano, forse per naturale conseguenza, alquanto semplicistiche. I quattro ricercatori lamentano soltanto che “i politici non rispondono adeguatamente; troppi leader dei governi e degli affari non ascoltano”. Appare evidente che lo scopo di questo lavoro d’inchiesta è quello di sollecitare le autorità politiche a farsi più democratiche, evitando così una critica radicale del loro orientamento intrinsecamente e sistematicamente antipopolare e magari reazionario. Qui emerge, in realtà, la questione più importante: l’aumento delle proteste, per numero e per intensità, non sembra scalfire neanche minimamente il dominio liberista, che anzi resiste in forme sempre più arroganti. Sembra avere quasi la certezza di poter godere di una sempre più forte asimmetria, di potere e di forza, in suo infrangibile fIl censimento delle proteste ha reso necessarie oltre mille ore di lavoro, prima ancora dell’inizio della successiva analisi dei dati e delle informazioni raccolte. Ma la tendenza di progressione quasi geometrica era emersa subito in modo evidente. Nel 2006 erano stati registrati solo 73 movimenti di protesta. Nel 2020 erano diventati 251, di più dunque dopo la grande crisi finanziaria del 2008 e dopo la formidabile Primavera Araba del 2011, che non risultarono affatto un picco come in apparenza si sarebbe potuto ritenere a fronte della eccezionalità di questi avvenimenti. L’Europa e l’Asia centrale hanno fatto registrare il maggior aumento numerico di movimenti di protesta; e nei due continenti di più nei paesi ad alto reddito anziché in quelli più poveri. Ovunque, in ogni caso, si è avuto un aumento generalizzato delle proteste, e questo vale per tutti gli strati sociali.
Il censimento si è basato su un esame articolato dei media in sette lingue, in particolare sui dati raccolti mediante il sito Interattive World Protests (https://worldprotests.org/), creato dagli stessi autori grazie al supporto del Friedrich-Ebert-Stiftung (FES) e dell Global Social Justice (Initiative for Policy Dialogue):
Le quasi tremila proteste esaminate in questa ricerca sono state classificate in quattro categorie principali, secondo una loro frequenza decrescente: (1) proteste relative al fallimento della rappresentanza politica (o del sistema politico), alla mancanza di una democrazia effettiva, alla corruzione o ad altre critiche similari (1503 proteste); (2) proteste contro l’ingiustizia economica e contro provvedimenti governativi di austerity (1484 proteste); (3) proteste per la difesa o per il riconoscimento di diritti civili, per esempio a tutela dei nativi o di minoranze oggetto di persecuzione razziale oppure legate ai diritti delle donne, alle libertà personali, all’orientamento sessuale (1360 proteste); (4) proteste per la giustizia globale, per un sistema internazionale migliore, per tutti e non per pochi, dirette contro istituzioni finanziarie come la Banca Mondiale, il FMI, la Banca Centrale dell’Unione Europea, contro l’imperialismo degli Stati Uniti o della Cina, contro il libero scambio in difesa dei beni comuni, contro il G20 (897 proteste).
Nel volume che pubblica la ricerca si trova una grande quantità di statistiche e di grafici su ogni categoria, su altri aspetti connessi, e questo per ogni territorio considerato.
Chi protesta?
Le ricerche più recenti mostrano una crescente partecipazione della “classe media”, anche nei paesi con alto reddito, e pure in quelli cosiddetti in via di sviluppo. Lo studio conferma il crescente coinvolgimento dei cittadini non-organizzati, dei movimenti di base, dei giovani e degli anziani. Questo vale in via generale: per i manifestanti della Primavera Araba, per il movimento degli Indignados, per i gilets gialli, per Occupy negli Stati-Uniti, per Estallido Social in Cile (con modalità non dissimili in altri paesi dell’America Latina e con diversi regimi politici). Emerge chiara l’orizzontalità di questi movimenti. Eppure il team della ricerca insiste nell’affermare che “i sindacati continuano a essere una grande potenza organizzatrice, la guida di alcune fra le più grandi proteste della storia”. Si nota qui la mancanza di una vera osservazione partecipante, di un metodo ormai riconosciuto dall’antropologia, e non solo da quella politicamente schierata. In realtà, dappertutto, costituisce un dato oggettivo e acquisito, l’affermarsi di diverse e nuove forme organizzative dentro proteste, in costante crescita, mentre ormai molto spesso i sindacati tradizionali non sono né promotori né guide.
Fonte: Effimera
Autore: redazione Effimera
Licenza: Copyleft
Articolo tratto interamente da Effimera
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti sono in moderazione e sono pubblicati prima possibile. Si prega di non inserire collegamenti attivi, altrimenti saranno eliminati. L'opinione dei lettori è l'anima dei blog e ringrazio tutti per la partecipazione. Vi ricordo, prima di lasciare qualche commento, di leggere attentamente la privacy policy. Ricordatevi che lasciando un commento nel modulo, il vostro username resterà inserito nella pagina web e sarà cliccabile, inoltre potrà portare al vostro profilo a seconda della impostazione che si è scelta.