giovedì 8 novembre 2018
Elezioni Midterm Usa: tutto secondo le previsioni dei sondaggi
Articolo da Altrenotizie
Le elezioni americane di metà mandato hanno restituito nella giornata di martedì una serie di risultati tutt’altro che univoci, in conseguenza dell’ampiezza e dell’estrema eterogeneità delle competizioni in programma e delle tematiche politiche all’ordine del giorno. Alcuni dei dati cruciali del voto sono apparsi tuttavia chiari e hanno in larga misura a che fare, da un lato, con la crescente ostilità nei confronti dell’amministrazione Trump e, dall’altro, con l’incapacità da parte del Partito Democratico di proporsi come reale alternativa democratica a una deriva autoritaria sempre più evidente nel panorama politico degli Stati Uniti.
A differenza delle presidenziali del 2016, le elezioni di “midterm” di quest’anno non hanno smentito i sondaggi delle ultime settimane, quanto meno in termini generali. I democratici hanno riconquistato la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti dopo otto anni all’opposizione, mentre hanno fallito al Senato, dove anzi i repubblicani chiuderanno con un aumento del numero di seggi nelle loro mani.
Alla Camera, il Partito Democratico ha fatto registrare un guadagno netto di seggi superiore ai 23 necessari a ribaltare gli equilibri attuali. La tendenza sfavorevole ai repubblicani in questo ramo del Congresso di Washington era chiara da tempo ed aveva assunto la sua forma più evidente nella disparità di denaro a disposizione delle campagne elettorali dei candidati appartenenti ai due schieramenti.
I democratici avevano cioè un vantaggio evidente nei finanziamenti, grazie solo in parte alla mobilitazione degli elettori comuni e alle loro donazioni di piccola entità. La vera differenza l’hanno fatta i grandi finanziatori, in particolare quelli di Wall Street, i quali, dopo svariati anni, in questa occasione hanno scelto in maggioranza di appoggiare il Partito Democratico.
Sintomatico dell’orientamento di quest’ultimo partito è il fatto che la chiave del successo alla Camera è stato il predominio in un certo numero di distretti suburbani, precedentemente rappresentati da repubblicani, con livelli educativi e di reddito relativamente elevati. Questo aspetto è la diretta conseguenza della decisione del Partito Democratico di puntare su battaglie razziali e di genere, generalmente considerate sensibili per la borghesia “liberal”, piuttosto che economiche e di classe.
Decisamente meno convincente è stata al contrario la performance democratica nei distretti rurali e in quelli dove prevale la “working-class” e con condizioni di vita più disagiate. Qui l’ondata trumpiana ha sostanzialmente tenuto, a conferma del relativo successo del populismo di destra della Casa Bianca nelle aree socialmente ed economicamente più problematiche degli Stati Uniti in una situazione di vuoto nella sinistra americana “ufficiale”.
La nuova maggioranza democratica che a gennaio si insedierà alla Camera non prospetta dunque una svolta progressista né un particolare freno alle politiche ultra-reazionarie di Trump e dei repubblicani. A confermarlo è stata la leadership quasi ottuagenaria del partito che diventerà a breve maggioranza alla Camera, al cui vertice rimane la futura “speaker” Nancy Pelosi, subito impegnata ad assicurare un’attitudine bipartisan e collaborativa con i colleghi repubblicani.
Questa dinamica era d’altra parte ipotizzabile già dai toni della campagna elettorale. La maggior parte dei candidati democratici, così come i leader del partito, aveva infatti mantenuto un sostanziale silenzio sulle posizioni sempre più aggressive, anti-democratiche e dall’impronta xenofoba del presidente Trump.
Complessivamente, visti i precedenti delle elezioni di metà mandato e il grado di impopolarità dell’inquilino della Casa Bianca, il risultato dei democratici non appare esattamente come un trionfo. Allo stesso modo, la probabile marginalizzazione dell’ala progressista del partito, che martedì ha ottenuto solo parziali successi a livello nazionale e locale, assieme al conseguente mancato ricambio generazionale ai vertici, finirà probabilmente per beneficiare l’amministrazione Trump da qui alle presidenziali del 2020.
A differenza della Camera, dove erano in palio tutti e 435 i seggi, al Senato la competizione ne riguardava solo 35 su 100. I democratici partivano qui da una posizione di svantaggio, dovendo difendere numerosi candidati in stati vinti da Trump nel 2016 e, per puntare alla maggioranza, strappare nel contempo qualche seggio occupato da senatori repubblicani.
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Fonte: Altrenotizie
Autore: Michele Paris
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Articolo tratto interamente da Altrenotizie.org
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