sabato 28 ottobre 2023

Bisogna sostenere redditi e i salari



Articolo da La Fionda

Il Reddito di cittadinanza, che è presente in tutte le nazioni europee con importi spesso più importanti di quelli che erano finora previsti nel nostro Paese, viene introdotto per la prima volta in Italia nel 2019[1]. Con l’introduzione di questa misura sono stati destinati, come mai prima nella storia della nostra nazione, 8 miliardi di euro l’anno dalla fiscalità generale ai due decimi più poveri della distribuzione del reddito, riuscendo, come non avveniva dagli anni ‘90 del secolo scorso, ad ottenere una riduzione della disuguaglianza tra il 20% della popolazione più ricca e il 20% dei più poveri nel Paese.

In Germania, uno dei primi paesi a introdurre una forma di tutela per chi fosse senza lavoro, questo strumento, il cosiddetto ‘Bürgergeld’,dopo l’ok del Senato federale tedesco, sarà, a partire dal prossimo anno, addirittura potenziato. Quindi in Germania la misura vede un allargamento della platea, che si avvicinerà quasi ai 5 milioni di persone.

In alcuni stati come Svezia, Slovacchia e, recentemente, Spagna, il sistema è centralizzato a livello nazionale, mentre in altri tra cui Austria e Paesi Bassi è gestito localmente. In Spagna, il governo socialista di Pedro Sánchez ha introdotto nel 2020 l’Ingresso Minimo Vital (IMF), una misura di welfare per garantire a disoccupati e famiglie in difficoltà un assegno che va da un minimo di 462 a un massimo di 1.015 euro al mese. L’importo dell’IMV varia a seconda della dimensione del nucleo familiare, viene erogato in 12 mensilità ed è cumulabile con altri tipi di prestazioni sociali. Il fine ultimo della misura è soprattutto il contrasto alla povertà. E, proprio per questo, la misura prevede requisiti meno stringenti rispetto ad altri Paesi e può essere richiesto anche dagli stranieri che si trovano da almeno un anno in Spagna. 

In Francia, chi ha più di 25 anni ed è disoccupato può richiedere il Revenu de solidarité[2]. Il sussidio prevede un supporto economico che va da circa 500 euro – in caso di mono nucleo familiare – a circa 1.000 euro per le coppie con figli. La misura non ha nessun limite temporale e può essere richiesta anche per integrare i redditi dei lavoratori sotto la soglia fissata annualmente per raggiungere il reddito minimo. Per incentivare chi beneficia della prestazione di sostegno a tornare nel mercato del lavoro, il governo francese ha varato anche il Prime activité, una sorta di integrazione dello stipendio che può essere richiesta da chiunque guadagni meno di 1.800 euro (una volta e mezzo il salario minimo legale).

Attualmente in Italia, la sostituzione del Reddito di Cittadinanza con l’Assegno di Inclusione, una misura categoriale rivolta esclusivamente alle famiglie con minori, anziani o disabili, costituisce una profonda e preoccupante novità rispetto al criterio che aveva caratterizzato le due precedenti misure nazionali di contrasto alla povertà, prima il Rei e poi il Rdc. Viene infatti abbandonato il principio del reddito minimo (oggi, come visto, vigente nella maggior parte dei paesi europei), secondo il quale qualsiasi nucleo familiare che si trova in condizione di povertà deve ricevere un sostegno minimo al reddito. La conseguente riduzione della platea degli aventi diritto è infatti rilevante. La revisione peggiorativa fatta del governo Meloni non riconoscerà circa 600 mila nuclei famigliari come aventi diritto al sussidio, (non entreranno nel nuovo programma a causa dei nuovi criteri rigidi per usufruirne). Il nuovo Assegno d’inclusione prevede comunque una spesa di circa 5 miliardi di euro per circa 700 mila nuclei, e rappresenta una risorsa inimmaginabile, per quanto stanziato dai precedenti governi italiani, che fino al 2018 al massimo avevano destinato 1,5 miliardi alla lotta alla povertà.  Bisogna riconoscere e ricordare che il decreto Dignità nel 2018, dopo anni di flessibilità selvaggia e sfruttatrice di precari e poveri, ha aggredito, per la prima volta, la flessibilità del lavoro che diventa solo precarietà. Questo provvedimento che ancora nel 2023 riesce a dare buoni frutti restringe lo spazio per il lavoro a tempo determinato almeno fino a maggio 2023. A seguire, abbiamo la revisione, molto peggiorativa, del governo Meloni, effettuata col cosiddetto “decreto 1° maggio 2023”, che non abolisce definitivamente il dl Dignità, ma affida alle parti (aziende e lavoratori) la facoltà di derogare alle causali. Sappiamo benissimo che effetti peggiorativi per i lavoratori si avranno da questo tipo di deroga. In effetti il governo si lava le mani delle responsabilità della precarietà e, non tenendo conto del dato di fatto inconfutabile che il lavoratore è sempre l’anello debole nel rapporto di lavoro, lo abbandona inesorabilmente a se stesso, alla mercé del datore di lavoro. Infatti il dato certo è che nel prossimo futuro il lavoro temporaneo aumenterà ulteriormente, lasciando milioni di lavoratori senza nessuna tutela.

Rispetto al fondamentale tema della necessaria introduzione di una legge che preveda il salario minimo[3], provvedimento presente in tutte le legislazioni europee, ad esempio sappiamo che in Germania è fissato a 12 Euro l’ora[4].  In Italia, secondo i dati Inps, i lavoratori con bassi salari (meno di 1.000 euro mese) sono il 29% e oltre 4 milioni guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora[5].

I settori in cui si concentrano i bassi salari sono i servizi, la ristorazione, il turismo, il commercio, la logistica, i trasporti, i servizi alla persona, le pulizie, la vigilanza, l’agricoltura. La contrattazione collettiva non riesce, soprattutto in questi settori, ad alzare i salari: sono i settori più frammentati dell’economia, dove esiste molta contrattazione senza tenere conto della legislazione, con lavoratori sempre meno sindacalizzati e rapporti di lavoro caratterizzati da temporaneità e altissimo turn over. Anche per questo è necessario un salario minimo legale, per compensare i bassi livelli retributivi che caratterizzano gran parte degli stipendi in Italia. Inoltre eviterebbe il diffusissimo sfruttamento, altamente presente in Italia in tutti i settori con bassi salari. Ricordiamo che il numero dei poveri assoluti è salito a 5,6 milioni di persone, abbiamo circa 3 milioni di lavoratori precari e in media ogni anno circa 4,2 milioni di rapporti di lavoro a termine, sia nel pubblico che nel privato[6].

Oggi nel nostro paese, tasse e bassi salari comprimono la classe media tanto da renderla quasi indistinguibile dai lavoratori più poveri[7].

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Fonte: La Fionda


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Articolo tratto interamente da 
La Fionda


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