domenica 3 ottobre 2021

La criminalizzazione della solidarietà



Articolo da Associazione Diritti e Frontiere – ADIF

I. Introduzione.

La criminalizzazione di persone e organizzazioni che prestano assistenza agli immigrati in Europa è espressione della chiusura delle vie di ingresso legale, anche per ragioni umanitarie, e della crescente difficoltà di accedere alla procedura di asilo in frontiera  e di soggiornare legalmente. I processi di criminalizzazione, soprattutto a livello mediatico, hanno riguardato prima i cd. “clandestini”, poi coloro che gli prestavano soccorso, infine i cittadini solidali,,associazioni di volontariato,e singoli amministratori locali, che prestavano assistenza a terra, fino ad intaccare il principio di separazione dei poteri, la libertà di informazione ed i diritti di difesa. E’ finito compromesso lo stesso esercizio della giurisdizione sotto una pressione politica e mediatica senza precedenti.

A partire dal 2017, anno della stipula del Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli si è sviluppata una forte attività di indagine nei confronti dei rappresentanti delle Organizzazioni non governative che operavano attività di monitoraggio e soccorso nel Mediterraneo centrale con diversi sequestri preventivi e con procedimenti penali che sono stati archiviati o che rimangono ancora nella fase delle indagini preliminari, salvo il caso isolato di rinvio a giudizio a Catania, per smaltimento illecito di rifiuti. In generale si è utilizzata l’ampia portata della previsione dell’articolo 12 del Testo Unico sull’immigrazione, quando non si è fatto ricorso ad altri tipi di reato, come la violenza privata o la resistenza a pubblico ufficiale, per tentare di qualificare come condotte penalmente rilevanti atti che costituivano adempimento dei doveri di soccorso ed assistenza.

Da quello stesso anno, per contrastare quella che viene definita soltanto come “immigrazione illegale” e per dimostrare un effettivo controllo dei “flussi migratori”, si sono ritirati tutti gli assetti navali militari italiani ed europei che in passato garantivano sorveglianza e soccorso, e si è perfezionata la collaborazione con la sedicente Guardia costiera “libica”, per delegare alle motovedette di Tripoli o di Zawia respingimenti collettivi che sarebbero altrimenti sanzionabili se fossero effettuati sotto il coordinamento operativo di stati, come l’Italia, sottoposti alla giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Sono peraltro noti a tutti i collegamenti tra la stessa sedicente guardia costiera libica e le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di migranti dalla Libia, e dalla Tripolitania, in particolare. Si tratta di rapporti che ormai appaiono istituzionalizzati, come emerge oggi dalla nomina del noto trafficante Al Milad Bija a comandante dell’Accademia navale libica.

Una importante sentenza del Tribunale di Trapani sul caso dei “dirottatori” sulla nave Vos Thalassa (luglio 2018) aveva messo bene in evidenza la illiceità degli accordi stipulati nel tempo dall’Italia con le diverse autorità di governo libiche, ma una successiva sentenza della Corte di Appello di Palermo ne ha stravolto la portata, pur senza entrare nel merito della efficacia di questi accordi. In base a quegli accordi nel 2018 le autorità di Tripoli dichiaravano la loro zona SAR ( di ricerca e salvataggio) che nel tempo si è trasformata da area di responsabilità ( di soccorso) come dovrebbe essere in base alle Convenzioni internazionali di diritto del mare, in area di sovranità, come è dimostrato dai sequestri operati dai libici anche a danno dei pescherecci italiani, e dalle freque8n8t8i minacce, anche armate, rivolte alle ONG che continuano ancora con mezzi assai limitati, ad operare attività di ricerca e salvataggio in quell’area. Si tratta di una zona SAR che non dovrebbe essere riconosciuta, perché i libici non hanno ad oggi una unica centrale di coordinamento effettivo delle operazioni SAR e non dispongono neppure delle attrezzature e dei mezzi per garantire una effettiva salvaguardia della vita umana in mare, ma che viene riconosciuta per combattere la “guerra” contro quella che si definisce “immigrazione illegale”, anche se le Convenzioni internazionali e la legge italiane impediscono di considerare come clandestini i migranti o i naufraghi che i trovano in acque internazionali, prevedendo l’ingresso per ragioni di soccorso con una netta distinzione dall’ingresso irregolare ( art. 10 ter T.U. 286/98).

Nelle inchieste, avviate nel 2017 e rilanciate da alcune procure siciliane nei primi mesi del 2021, è risultato centrale il riconoscimento di una zona SAR libica, anche prima che questa fosse comunicata dai libici all’IMO, per ipotizzare un sostanziale accordo tra i trafficanti, gli scafisti e componenti degli equipaggi delle ONG. Ed ancora oggi, nel procedimento Iuventa a Trapani, si giunge a configurare persino il coinvolgimento delle società armatrici, con il rilancio della tesi delle cd. “consegne concordate” (tra gli scafisti e gli operatori umanitari), una tesi finora smentita da numerosi  provvedimenti di archiviazione in altre indagini contro le stesse ONG. Del resto, che la sedicente guardia costiera libica fosse coinvolta con organizzazioni criminali e condizionasse le attività di soccorso delle ONG sotto la minaccia delle armi era già noto dal 2017, almeno in base ai rapporti delle Nazioni Unite. Ma in quel periodo, come emerge da quanto osservato a Catania sul caso Open Arms nel marzo del 2018, era proprio la Marina e la Guardia costiera italiana che di fatto coordinavano la sedicente Guardia costiera libica dalla nave della missione italiana NAURAS presente nel porto militare di Tripoli.

In diversi procedimenti, già a partire dal caso Open Arms a Ragusa del marzo/aprile del 2018, è infatti emerso il livello di collaborazione operativa tra la sedicente Guardia costiera libica e le autorità marittime italiane, da sempre in stretto collegamento con i vertici del ministero dell’interno, prima ancora che la Libia dichiarasse unilateralmente una sua aria di competenza SAR (ricerca e salvataggio) e cominciasse a minacciare le navi delle ONG che si trovavano a prestare soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.

In circostanze decisive (come nel caso Sea Watch/Rackete del 2019 su cui poi si è pronunciata la Corte di cassazione), però la Corte di Strasburgo non è riuscita ad accordare misure interinali d’urgenza, in situazioni che hanno legittimato la violazione degli obblighi di soccorso e di indicazione di un porto di sbarco sicuro. Nella maggior parte dei casi la “scomparsa” dei migranti intercettati in acque internazionali e riportati indietro dalla sedicente guardia costiera libica non ha permesso la proposizione di ricorsi individuali alle Corti internazionali, ed il ruolo di denuncia è rimasto affidato alle organizzazioni non governative ed alle principali agenzie umanitarie delle Nazioni Unite (OIM e UNHCR).

Si può tuttavia individuare già a livello nazionale una precisa linea di evoluzione giurisprudenziale che va dal caso Cap Anamur del 2004 al procedimento nei confronti di Carola Rackete nel 2019, che ribadisce come l’adempimento degli obblighi di soccorso in lto mare , e quindi l’ingresso nei porti italiani, non configurino alcuna responsabilità penale. La decisione del GIP di Agrigento è stata poi confermata da una importante decisione della Corte di Cassazione che ha dichiarato illegittimo l’arresto della comandante Rackete, avvenuto a Lampedusa il 29 giugno 2019 .

Secondo la Corte di Cassazione,“La verosimile esistenza della causa di giustificazione e stata congruamente argomentata. In questa ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per Ia salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata daii’Italia con Ia Iegge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con Ia Iegge n. 147 del 1989 e alia quale e stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sui diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel1982 e recepita daii’Italia dalla Iegge n. 689 del1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare Ia condotta di resistenza”.. “Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento interno, in forza del disposto di cui 1all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere Ia ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nella quale Ia citata causa di giustificazione era piu che “verosimilmente” esistente”.

Per la Corte di Cassazione,L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”). iI punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e Ia cooperazione necessari affinche i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente Ia salvaguardia della vita umana oin mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo Ia responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e Ia cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui e stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione Marittima Internazionale. In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve
tempo ragionevolmente possibile”.

Sono ancora lunghissimi i tempi dei procedimenti penali che riguardano i soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, anche per la scarsa collaborazione offerta dalle autorità marittime competenti. Come si è verificato nei casi dello speronamento da parte di una nave militare italiana, la Sibilla, durante un’azione di blocco navale davanti le coste albanesi (1997)e più di recente della strage del’11 ottobre 2013, oggetto di un processo ancora aperto davanti al Tribunale di Roma. Il 27 gennaio 2021 il Comitato per i Diritti Umani dell’ONU (“Comitato”) ha pubblicato una storica decisione con la quale ha stabilito la responsabilità dell’Italia per violazione del diritto alla vita di cittadini stranieri naufragati in acque internazionali. Il caso riguarda il tragico naufragio dell’11 ottobre 2013, noto anche come “la strage dei bambini” in cui a sud di Malta morirono circa 200 persone, tra cui almeno 60 bambini. Il caso è stato portato all’attenzione del Comitato ONU per i diritti umani da tre cittadini siriani ed uno palestinese, sopravvissuti all’incidente.

Sotto il diverso profilo degli obblighi di soccorso, con specifico riferimento alla conclusione delle operazioni di salvataggio, con lo sbarco in un porto sicuro (place of safety,) se ne tratterà nel processo nei confronti del senatore Salvini, sul caso Open Arms, a partire dal prossimo 23 ottobre davanti al Tribunale di Palermo. In quest’ultimo processo la difesa dell’imputato ha chiesto l’inserimento degli atti del procedimento IUVENTA a Trapani, nel quale non è stata neppure fissata una udienza preliminare, a causa della necessità di procedere allo stralcio di una enorme mole di intercettazioni inserite negli atti di causa ma del tutto irrilevanti ai fini del procedimento.

Siamo purtroppo costretti a prendere atto come anche recenti sviluppi processuali, da Trapani a Ragusa ed a Catania, siano diventati così occasione per ulteriori gravi manipolazioni mediatiche, che hanno contribuito ad alimentare la campagna di criminalizzazione della solidarietà in mare in corso da anni. Si riscontrano anche orientamenti delle procure e dei giudici di merito ancora oscillanti, malgrado varie archiviazioni ed il chiaro pronunciamento della Corte di cassazione sul caso Rackete.

lI Tribunale civile di Ragusa , lo scorso giugno, ha intanto revocato la multa di 300.000 euro inflitta al comandante Claus Peter Reisch della ONG tedesca Lifeline dopo il salvataggio di migranti in mare e l’ingresso nel porto di Pozzallo,nel mese di settembre dello scorso anno. Anche il sequestro della nave “Eleonore” della stessa ONG Lifeline é stato revocato. Secondo il portavoce della ONG Lifeline,“la sentenza dimostra che il diritto internazionale è al di sopra della volontà di un singolo ministro. “Si può anche dire che il salvataggio in mare e l’umanità non sono mai un crimine”. Purtroppo però a livello mediatico e di senso comune ogni occasione sembra buona per colpire i soccorsi umanitari in mare, anche quando vengono revocate le misure di fermo amministrativo.

Il gip di Agrigento, a maggio di quest’anno, ha archiviato l’inchiesta su Carola Rackete, a due anni dall’ingresso a Lampedusa. La capitana della Sea Watch 3 aveva il “dovere di portare i migranti in un porto sicuro”, nonostante il divieto deciso dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. A maggio del 2019 la Procura di Catania aveva chiesto con il procuratore Zuccaro l’archiviazione del procedimento a carico di Marc Reig Creus e Ana Isabel Montes Mier, comandante e capo missione della nave che a marzo del 2018 soccorse e salvò 218 migranti al largo della Libia per poi trasferirli nel porto di Pozzallo, in Sicilia, dove la nave veniva sequestrata. Una parte di quel procedimento penale rimane però aperta a Ragusa, dove la procura ha chiesto il rinvio a giudizio degli imputati per il reato di violenza privata, facendo ricorso contro il proscioglimento deciso dal Tribunale di Ragusa, escludendo tanto la violenza privata quanto il reato di favoreggiamento.

2. Dati reali e narrazione distorta degli “sbarchi”in Italia

Gli sbarchi in Italia di persone fuggite dalla Libia non sono mai cessati, ed alle tradizionali rotte dalle coste della Tripolitania (Sabratha, Tripoli, Zuwara, Zawia) si sono adesso sommate le rotte già aperte da tempo, ma più battute, dalla Tunisia meridionale e dall’Egitto, al confine con la Cirenaica. E gli sbarchi per ragioni di soccorso sono aumentati non solo in Sicilia ed a Lampedusa, ma anche sulla fascia ionica della Calabria. Anche se poi alcuni sbarchi si sono conclusi in Sicilia. Dopo la fase più critica dell’emergenza COVID e con i nuovi equilibri che si sono creati in Libia dopo l’intervento militare turco, nell’estate del 2020, sembra che le partenze siano sempre più consistenti, malgrado il crescente impegno delle autorità anti-immigrazione. La situazione nel Sahel, e in genere in tutta l’Africa subs-ahariana rimane sempre assai confusa, e i progetti di sorveglianza delle frontiere meridionali della Libia, rimangono al tavolo delle conferenze internazionali che periodicamente le ripropongono.

Secondo quanto  riferito lo scorso agosto dal ministro dell’interno,  in occasione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, dal primo agosto 2020 al 31 luglio 2021 sono sbarcate in Italia 49.280 persone. Nello stesso periodo, sono aumentati anche i cosiddetti sbarchi autonomi, che rappresentano ormai l’82,6% del totale, rispetto al 75,6% dell’anno precedente. Nel periodo di riferimento le persone soccorse in mare da organizzazioni non governative sono state soltanto 4239. Conseguenza evidente del blocco prolungato nei porti italiani imposto alle ONG con la prassi dei cd. fermi amministrativi.

In base a recenti dati dell’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni), il numero di persone intercettate in alto mare e riportate in Libia ha toccato quota 20.257, quasi il numero di migranti salvati in un anno intero, nel 2020.  Appare sempre più evidente in questi casi il coinvolgimento di assetti aerei dell’operazione EunavforMed IRINI e dell’agenzia europea Frontex nella segnalazione alle autorità libiche delle imbarcazioni cariche di migranti, in difficoltà nelle acque internazionali del mediterraneo centrale.

L’8 gennaio 2020, Joseph Borrell, Alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare, ha negato che siano mai state fornite informazioni da Frontex alla Guardia costiera libica nell’ambito delle operazioni di sorveglianza previste dal Regolamento UE (n. 656/2014) ed effettuate dagli Stati membri alle loro frontiere esterne in cooperazione con l’Agenzia. “Ciò si è verificato tuttavia nell’ambito dell’“Eurosur Fusion Service — Multipurpose Aerial Surveillance (MAS)”, ha dovuto poi ammettere lo stesso Commissario Borrell.“durante l’attività di sorveglianza aerea MAS nell’area di pre-frontiera – dal 2017 sino al 20 novembre 2019, quando Frontex ha individuato situazioni di pericolo nella regione SAR libica, l’Agenzia ha informato in 42 casi il Centro di coordinamento delle ricerche dello Stato membro più vicino, Eunavfor MED così come le autorità libiche”. 

Il 17 giugno 2020 quattro organizzazioni non governative (Alarm Phone, Borderline-Europe, Mediterranea Saving Humans e Sea-Watch) hanno presentato il rapporto “Remote control: the EU-Libya collaboration in mass interceptions of migrants in the Central Mediterranean” che evidenzia come le azioni intraprese dalle unità di sorveglianza aerea dell’UE, in collaborazione con le autorità libiche, abbiano facilitato le intercettazioni e i respingimenti collettivi dei migranti. Il rapporto ricostruisce in particolare alcuni eventi di ricerca e salvataggio conclusi con intercettazioni e respingimenti verso e dentro la zona SAR riconosciuta alla Libia, nei quali era risultato determinante il contributo di Frontex e delle autorità marittime italiane.

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Fonte: Associazione Diritti e Frontiere – ADIF

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Articolo tratto interamente da 
Associazione Diritti e Frontiere – ADIF


6 commenti:

  1. Grazie per aver postato quest'importante intervento del prof.Fulvio Vassallo Paleologo, un giurista palermitano davvero encomiabile.

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  2. Ho l'impressione che nessuno abbia il coraggio di dire come stanno veramente le cose.
    Ciao Vincenzo.

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  3. Alla fine.a pagar le spese è soprattutto chi scappa dalle guerre e dalla fame.

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