giovedì 21 ottobre 2021

La storia del pane



Articolo da L’Undici

Tutti sanno che gli antichi egizi hanno inventato le piramidi, ma è meno noto che sono stati i primi, veri panettieri: eccellenti agricoltori e produttori di cereali – l’Egitto era noto nel Mediterraneo come il granaio del mondo – avevano anche scoperto che aggiungendo all’amalgama di chicchi macinati un pezzetto di pasta avanzata il giorno prima, avrebbero ottenuto con la cottura appetitose pagnotte lievitate. Il popolo del Nilo conosceva oltre 50 tipi di pane di varie forme, coniche, a ciambella, a mezzaluna e perfino per i bambini, a forma di animali e pupazzetti. C’erano poi quelli dolci a cui venivano aggiunti miele, datteri o frutta secca, dal momento che lo zucchero non era conosciuto. I chicchi, polverizzati nei mortai, erano impastati coi piedi dalle donne, cosa che farà dire ironicamente ad Erodoto che gli egizi facevano il pane coi piedi e i mattoni con le mani. La pasta lievitata era conservata in ogni casa come se fosse stata sacra. Il pane, assieme alla carne e alla birra, costituiva anche la paga dei lavoratori: gli egizi infatti conobbero la moneta solo nella XXVII dinastia (525-404 a.C.) quando fu introdotta nel paese dai persiani, che sostituirono in tal modo il baratto, antica e unica forma di scambio.

Dall’Egitto l’arte della panificazione si diffuse per tutto il Mediterraneo. Pitagora sosteneva che “l’universo ha inizio dal pane” e anche Platone nel suo “Repubblica”, affermava che i cereali sono un cibo sano e nutriente con cui preparare anche focacce e gallette. In epoca arcaica il pane era preparato dalle donne di casa con le più semplici tra le tecniche di cottura, sotto la cenere o su una pietra riscaldata. Nel VI secolo ad Atene Solone ne regolamentò la quantità individuale, stabilendo che la pagnotta di frumento potesse essere mangiata solo nei giorni di festa, mentre per il resto della settimana i cittadini dovevano accontentarsi della focaccia d’orzo non lievitata. Un altro economico e antichissimo alimento di base fu la “maza”, focaccia di cereali senza lievito che veniva farcita di verdura o carne; la piatta sfoglia di farina, antenata del panino imbottito, si diffuse poi in tutta l’area mediterranea, arrivando nei secoli fino a noi sotto forma di piada. Nel periodo di Pericle fiorirono le botteghe dei fornai e di conseguenza e le pagnotte furono acquistate direttamente in negozio; la panetteria diventò una rinomata forma d’arte apprezzata anche fuori dalla Grecia. Il popolo ellenico sapeva creare un’ottantina di pani diversi comprese varie specialità regionali; molteplici le forme, a volte collegate con simbologie religiose, come ad esempio il pane “hemiartion” preparato ad Efeso, che assomigliava a una falce in onore della dea lunare Artemide che vi si venerava.

Nell’antica Roma questo alimento giunse piuttosto tardi: all’inizio l’ingrediente principale dell’alimentazione fu il farro, mentre i primi fornai aprirono bottega a Roma nel 171 a.C. Importati in città dalla Grecia come schiavi, questi artigiani introdussero ingredienti e tecniche sconosciute in Italia e principalmente l’uso del pane lievitato che soppiantò le tradizionali focacce di cereali. Il nuovo prodotto ebbe enorme successo: al tempo di Augusto la città contava già 329 panetterie, tutte tenute da Greci; ma anche nel resto d’Italia i fornai prosperarono e lo testimonia il gesto di uno di essi che fece addirittura incidere sulla sua casa a Pompei un fallo propiziatorio con la scritta “Hic habitat felicitas”. Questi artigiani erano detti in latino “pistores”, parola che è tuttora viva nel dialetto veneto: a Venezia c’è anche una ”Calle del Pistor”. Ben presto la produzione di pane si differenziò a tal punto che se ne ebbero numerosissimi tipi, a volte denominati in base al loro specifico companatico, come il “pane per ostriche”, a volte a seconda degli ingredienti che lo componevano e del tipo di cottura: i ricchi usavano pane raffinato che chiamavano “candidus”; c’era poi il panesecondarius”, di fattura più grossolana ma che non era disdegnato dallo stesso Augusto e il “cibarius”, plebeo e di colore scuro. Il pane più scadente era fatto di sola crusca o mescolato con farina di legumi; ai più poveri era anche destinato un pane “fiscalis” per cui la legge imponeva obbligatoriamente il prezzo fisso. Le forme erano solitamente rotondeggianti con la parte superiore modellata variamente: nella bottega di un fornaio ad Ercolano, furono trovati pani pietrificati a forma di fiore a otto petali ancora chiusi nel forno, evidentemente abbandonati in fretta e furia al momento dell’eruzione del Vesuvio.

Con la caduta dell’Impero romano, una forte crisi agricola portò al crollo della produzione di frumento, mentre avanzarono altri tipi di grani come la segale, l’orzo, la spelta, il sorgo, il miglio, il panico. La segale, poco amata dai latini che la chiamavano “mala erba”, conobbe un notevole successo grazie alla sua facilità di coltivazione specie in ambito tedesco, dove il pane di segale, definito “pulchrum”, era accolto anche sulle tavole aristocratiche; mentre in Francia dove più diffuso era il frumento, era invece chiamato “vilissima panis torta”. Con le invasioni barbariche si era ormai perduta l’abilità dei fornai romani, e nel Medioevo solo i monasteri possedevano panetterie di una certa importanza, mentre i signori feudali non esitarono a imporre tasse e balzelli senza pietà per la gran massa della povera gente; il cibo abituale di costoro, era costituito da pane nero, zuppe, farinate, ricavati dai cereali “inferiori”, ossia l’orzo e l’avena, utilizzati anche come cibo per cavalli. Il pane d’orzo, scarsamente digeribile e di sapore aspro, era sconsigliato ai malati, e aveva anche una valenza penitenziale: Gregorio di Tours nella sua “Storia dei Franchi”, racconta che durante un’epidemia di peste gli abitanti di Marsiglia si nutrirono di pani d’orzo per impetrare da Dio la fine del morbo.

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Fonte: 
L’Undici



Articolo tratto interamente da 
L’Undici


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