martedì 26 settembre 2023

50 anni senza Anna Magnani



Articolo da Doppiozero 

Marzo 1944: siamo a Roma, nel quartiere Prenestino, alla vigilia delle nozze tra Pina, interpretata da Anna Magnani, e Francesco (Francesco Grandjacquet). Ci troviamo in una scena di Roma città aperta (1945): Pina, come si usava fare, vive in una casa condivisa con altre persone, tra cui dei bambini. Di notte, quando tutti, ormai, si sono messi a dormire, i ragazzini commentano tra di sé una bravata contro i soldati tedeschi. Quello scherzo, all’indomani, scatenerà una vendetta fatale, ma nessuno presagisce ancora la tragedia imminente e così uno dei piccoli, Marcello, figlio di Pina, dice: «L’avemo fregati bene a quelli, eh?». «A me non mi ci portate mai, però!» protesta una ragazzina. «Ma che c’entra?» – ribatte l’altro – «Te sei una donna!»; «E perché, le donne non possono fa’ l’eroismo?»; «Sì, lo ponno pure fa’…ma Romoletto dice che le donne so’ sempre guai.. ». «Ma non dormi tu? Dormite!» ordina Francesco entrando nella stanza.

Che scena perfetta e doppiamente incredibile: anzitutto perché quello scambio infantile che all’apparenza sembra funzionare come riempitivo, diventerà invece una specie di anticipazione dei gravi fatti del giorno dopo, quando Pina, la madre di Marcello, farà una morte eroica mentre insegue la camionetta che le sta portando via il suo amore, nella scena più famosa di Roma città aperta. Ma quel dialogo così giocoso è interessante anche perché in effetti è difficile, a pensarci, trovare una definizione più emblematica di ciò che Anna Magnani, morta mezzo secolo fa, il 26 settembre 1973, ha fatto accadere nella storia del cinema italiano. Le sue interpretazioni più famoso e più indimenticabili («Ti ho sentito gridare “Francesco” dietro un camion e non ti ho più dimenticato» scrisse Ungaretti) hanno scolpito nella memoria cinematografica italiana una verità spesso rimossa eppure, grazie a Magnani, evidente: le donne “possono fa’ l’eroismo”. 

Qualche mese fa, l’artista e attivista americana Nan Goldin (colei a cui è dedicato il film di Laura Poitras che ha vinto il Leone d’Oro nel 2022) ha partecipato a “Il Cinema Ritrovato”, a Bologna. Presentando la proiezione di Bellissima (Luchino Visconti, 1952), sul palco di Piazza Maggiore, Nan Goldin ha definito Anna Magnani una grandissima attrice femminista. Ha ragione. Credo che si debba aggiungere anche un’altra cosa. È tempo di guardare il cinema di Anna Magnani non come la storia eccezionale di una geniale artista considerata all’interno di una storia del cinema italiano intesa come storia essenzialmente maschile – scandita e organizzata da sguardi maschili, a tutti i livelli: di regia, produzione, realizzazione, interpretazione, ricezione. È tempo di riconoscere cosa ha fatto accadere attraverso il cinema Anna Magnani, e proprio perché era un’attrice.

Vari studi recenti, prevalentemente di studiose, hanno illuminato questi aspetti, riguardanti anche questioni di genere, e che non sono fatti supplementari, marginali, opzionali. «Io non recito: vivo quello che faccio» ha dichiarato spesso Magnani nelle interviste. Le donne in cui ci fa vivere e ci fa credere Anna Magnani, il loro coraggio, il loro eroismo, non prescindono dalla storia, ma la reinterpretano e la dirottano. Anche quando, praticamente sempre, a dirigerla sono stati uomini: Rossellini, Visconti, Cukor, Pasolini, per fermarci ai primi nomi. C’è un filtro però che Magnani mette sempre tra sé e il regista che la dirige, vale a dire il suo sguardo. È come se, prima di farsi dirigere da altri, fosse Magnani a guardarsi e dirigere sé stessa, a reinventarsi – anche colluttando con il regista: per esempio con Pasolini che in Mamma Roma mal sopportava il suo dinamismo attoriale.

Siamo tutte spettatrici e spettatori di Anna Magnani: chi guarda i suoi film, chi ha recitato con lei, chi l’ha diretta, e anche lei stessa. È come se, quando è in scena Magnani, anche senza accorgercene fossimo messi di fronte a degli autoritratti per interposta persona, che fanno esistere l’attrice anche come autrice di sé stessa. Agisce, infatti, nei suoi ruoli, una consapevolezza del corpo scenico, di cui Magnani non nutre il personaggio (possiamo anche dire la personaggia) ma la sua stessa persona, con effetti continui di sdoppiamento e di mise en abyme

Torniamo, per esempio, a quella famosa corsa dietro alla camionetta, che ha fatto la storia e potrebbe valere da punto di partenza per riscrivere un’intera storia del cinema come storia di donne che corrono. Quante volte (troppe) si è sentito parlare, per via di aneddoti, delle intemperanze di Magnani, come se il suo talento (che sa sfruttare così bene un’espressività anche popolaresca) fosse una risorsa impulsiva, un nervosismo animale.

Mentre, in realtà, siamo in presenza di un’intelligenza attoriale incarnata che arriva anche dal teatro, anche dalla disciplina, o dal travaglio della preparazione, come racconta il figlio nella biografia. Quel grido stesso («ti ho sentita gridare “Francesco”») è disciplina, respiro, arte attoriale. E forse è anche di più, se trattiamo la recitazione anche in termini di spazio delle donne, vale a dire non solo come una questione tecnica, come “valigia dell’attore”, ma, al tempo stesso, come negoziazione di un diritto alla voce: all’eroismo delle donne, per l’appunto. Per questo la definizione di Nan Goldin, fatta risuonare sotto le stelle, in una piazza piena di migliaia di persone, suona così bene. La risata forte di Magnani, la voce alta, il grido, lo sguardo, le occhiaie stesse e i capelli spettinati buttati in faccia all’altro non sono solo stilemi, ma strategie corporee di conquista dello spazio – usate, tra l’altro, da un’artista che, proprio in teatro, ha imparato a vivere la recitazione come evento reattivo, in continua sintonia con la presenza fisica del pubblico. E così quel grido, il punto preciso in cui è pronunciato intanto che il corpo frana a terra, è la voce di un’interprete che non era affatto nata come protagonista di Roma città aperta, ma, attraverso il corpo dell’attrice diventa emblema, cifra eroica del capolavoro di Rossellini. Nulla sarà più come prima, nella storia del cinema come nel destino cinematografico di Magnani, da quando quel grido scappa fuori. Al quindicennio successivo di fama e popolarità internazionale farà seguito, infatti, una carriera alterna e che forse, nelle sue discontinuità, ci parla della straordinaria fedeltà a un eroismo e a uno spazio autoriale e attoriale d’ora in poi irrinunciabili.

Prendiamo come spartiacque proprio Roma città città aperta (1945), il lavoro con cui Magnani conquista un successo mondiale diventando una diva. All’epoca Magnani ha trentasette anni ed è il diciottesimo film in cui recita (da accreditata). Nei quattro anni successivi gira altri dieci titoli – e siamo a ventotto. Negli anni Cinquanta recita in dieci film, tra cui The Rose Tattoo (La rosa tatuata, 1955), di Daniel Mann, con cui sarà la prima attrice non madrelingua inglese a vincere un Oscar. The Fugitive Kind (Pelle di serpente, Sidney Lumet, 1960) è il primo dei soltanto sei film che girerà negli anni Sessanta. Dopo ci saranno Roma (Fellini, 1972) e Correva l’anno di grazia 1870 (Giannetti, 1972). Riepiloghiamo: diciassette film in undici anni, prima del capolavoro di Rossellini; venti nei quindici anni successivi; otto dal 1960 al 1973, a cui va aggiunta la trilogia per la televisione girata da Giannetti (Tre donne: La sciantosa; 1943: Un incontro; L'automobile). Non le piacciono i copioni, rifiuta i ruoli: non si fida, come dice, chiudendo la porta, nel finale di Roma

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Fonte: Doppiozero


Autore: 
Daniela Brogi

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Articolo tratto interamente da 
Doppiozero


2 commenti:

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