Articolo da El Común
Questo articolo è stato tradotto automaticamente. La traduzione rende il senso dell’articolo, tuttavia consigliamo di leggere il testo originale su El Común
Riconoscere il tempo impiegato per spostarsi come tempo di lavoro effettivo non è una questione di poco conto per la classe operaia, soprattutto in settori come il miglioramento e la conservazione delle aree naturali protette, dove la mobilità imposta dal datore di lavoro è una parte essenziale della fornitura dei servizi.
A
questo proposito, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea (CGUE) ha
emesso una sentenza con profonde implicazioni per i diritti del lavoro,
affermando che il tempo impiegato dai lavoratori per spostarsi da una
sede aziendale al luogo in cui effettivamente svolgono la loro attività,
e viceversa, costituisce orario di lavoro a tutti gli effetti. Questa
sentenza si basa sull'interpretazione dell'articolo 2, paragrafo 1,
della Direttiva 2003/88/CE, che definisce "orario di lavoro" qualsiasi
periodo durante il quale un lavoratore rimane al lavoro, a disposizione
del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue
funzioni.
Il caso esaminato dalla CGUE riflette una realtà molto comune nei settori precari con una forte componente manuale o fisica, dove il potere di organizzare il lavoro spetta interamente al datore di lavoro e una flessibilità mal compresa ricade sempre sulle spalle del lavoratore. I lavoratori coinvolti non lasciano direttamente la propria abitazione per recarsi sul posto di lavoro, ma sono tenuti a raggiungere a un orario specifico una sede prestabilita dall'azienda, da dove partono a bordo di un veicolo aziendale, guidato da un lavoratore designato e carico dei materiali necessari allo svolgimento della propria attività. Questo spostamento, che avviene prima dell'inizio del lavoro fisico e dopo il suo completamento, non è facoltativo, non è liberamente scelto dal lavoratore e non è un atto volontario estraneo alla descrizione della mansione.
Al
contrario, è completamente pianificato e organizzato dall'azienda:
stabilisce l'orario di partenza, il luogo di incontro, i mezzi di
trasporto e la destinazione finale. È, quindi, una chiara manifestazione
di subordinazione e alienazione, elementi essenziali di qualsiasi
rapporto di lavoro.
Ciò che la CGUE ha stabilito è ciò che molti lavoratori chiedono da tempo: che il lavoro non inizi solo quando l'utensile viene acceso, ma quando il corpo è già sottomesso alla logica del datore di lavoro. In questo caso, inoltre, viene sottolineato un elemento chiave: i lavoratori non hanno un posto di lavoro fisso e il viaggio diventa una condizione sine qua non per l'adempimento degli obblighi contrattuali. Non possono rifiutarsi di viaggiare, né possono decidere come, quando o da dove farlo. Né possono svolgere altre attività, riposarsi, disconnettersi o disporre liberamente del proprio tempo durante questo periodo. Sono a disposizione dell'azienda e, pertanto, questo tempo è orario di lavoro. Ciò ha conseguenze dirette sulla durata della giornata lavorativa, sul calcolo degli straordinari, sul diritto al riposo giornaliero e settimanale, sulla prevenzione dei rischi professionali e, naturalmente, sul diritto a una retribuzione equa.
I
datori di lavoro spesso sostengono che questi spostamenti facciano
parte della sfera privata del dipendente, quando in realtà fanno parte
dell'apparato produttivo da loro unilateralmente organizzato. Questo
tipo di spostamento è particolarmente comune nei lavori legati alla
manutenzione ambientale, dove le squadre si spostano in aree
difficilmente accessibili e in sedi diverse.
L'azienda cerca di imporre flessibilità territoriale senza
alcuna compensazione, scaricando sul dipendente i costi di tempo di
questa mobilità.
Questo
abuso è stato ora contestato per chiari motivi di diritto. La dottrina
della CGUE stabilisce che, quando il lavoratore non ha un posto di
lavoro fisso e l'azienda determina tutti gli elementi del tragitto
casa-lavoro, il tragitto casa-lavoro deve essere riconosciuto come
orario di lavoro. Questa interpretazione ha anche un fondamento nella
giustizia sostanziale: se il datore di lavoro controlla tale tempo, se
tale tempo non è né libero né volontario, se è necessario per svolgere
il lavoro concordato, esso deve essere incluso nel calcolo della
giornata lavorativa complessiva.
La sentenza della CGUE pone l'accento dove dovrebbe essere: sulla tutela del lavoratore in quanto parte debole del rapporto di lavoro. Non è solo una questione di minuti o chilometri, ma di dignità del lavoratore. Ogni ora concessa al datore di lavoro deve essere riconosciuta, conteggiata e retribuita. Non possono esistere zone grigie in cui il lavoratore lavori senza essere riconosciuto per ciò che fa. Ancor meno quando quel tempo è interamente organizzato dall'azienda. Ciò riguarda non solo i lavoratori del settore ambientale, ma anche migliaia di lavoratori mobili, tecnici di manutenzione, installatori, addetti alla pulizia delle strade, tra gli altri, che iniziano e terminano i loro turni in punti definiti dall'azienda e con le risorse da essa fornite.
Il
criterio stabilito dovrebbe diventare giurisprudenza vincolante per i
tribunali del lavoro nazionali, oltre a essere esplicitamente
incorporato nei contratti collettivi.
Non è sufficiente attendere che la CGUE si pronunci su ogni
caso. È responsabilità del movimento sindacale, dei sindacati di classe e
della legislazione nazionale sancire questo principio e garantirne il
rispetto. I datori di lavoro non possono continuare a rendere invisibile
l'orario di lavoro effettivo, né può diventare normale che una parte
della giornata lavorativa resti al di fuori del controllo e della
retribuzione.
Il diritto al tempo è un diritto di classe: tempo per vivere, per riposare, per organizzarsi collettivamente. Se il capo se lo appropria, deve pagarlo. Questa sentenza dimostra che il diritto del lavoro ha ancora il potere di proteggere se interpretato da una prospettiva operaia. Ma dimostra anche che se non si lotta per farlo rispettare, sarà di scarsa utilità pratica. Non ci rubino un altro minuto.
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Fonte: El Común
Autore: Concepción Far

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Articolo tratto interamente da El Común







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