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venerdì 31 ottobre 2025

Riforma Nordio: il volto nuovo dell’autoritarismo



Articolo da la Sinistra quotidiana

Riforma che avanza, grande opera che si arena. L’elemento in comune tra la riorganizzazione della giustizia all’epoca del melonismo e la stratentata apertura dei cantieri per l’edificazione del ponte sullo stretto di Messina sembra essere una manifesta, peraltro tutt’altro che nuova e, per questo, sorprendente, ostilità del governo delle destre nei confronti della magistratura della Repubblica. Se al complessivo impianto dei provvedimenti di Nordio si oppone il referendum, i giudici che lo sostengono sono ovviamente tacciati di essere di parte (nel senso di “partito“). Se il referendum lo chiede addirittura l’esecutivo stesso, allora è un grande segnale di democrazia: chiamare il popolo a confermare la volontà di Palazzo Chigi.

Se la Corte dei Conti boccia la delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica in merito al ponte sullo stretto, riecco l’accusa a caratteri cubitali sui giornali di area contro i giudici: non vogliono il progresso della nazione, si mettono in mezzo, fanno sostanzialmente politica ma con le decisioni e le sentenze.  Per la tempestività con cui tutto questo avviene, la vicenda dello stop all’avvio dell’iter per l’apertura dei cantieri tra Scilla e Cariddi, maggiore appare l’evidente contrapposizione che Giorgia Meloni e Matteo Salvini pongono tra il loro modo di governare e le correlazioni con gli altri poteri dello Stato.

Non c’è nemmeno più bisogno di argomentare il perché il premierato sia stato, in sostanza, per ora accantonato: la maggioranza di governo in Parlamento è talmente solida e compatta (nonostante le scaramucce interne che vengono messe a tacere quando si tratta di difendere grandi interessi che, a loro volta, garantiscono la stabilità dell’esecutivo) da scongiurare al momento una istituzionalizzazione del predominio di Palazzo Chigi sulle Camere. De facto è così: la riforma Nordio passerà oggi al Senato, in quarta lettura, in soli nove mesi di discussione, saltando tutta una serie di tempistiche che non sono meri formalismi, ma esigenze costituzionali atte a garantire un confronto tra le parti.

Il governo Meloni invece va avanti spedito, pur non avendo raggiunto in Parlamento i numeri che gli consentirebbero di aggirare il ricorso popolare al referendum che, in questo modo, scatta obbligatoriamente. Così, i patriottissimi lo intendono trasformare in uno strumento di ampio consenso, mostrando e dimostrando che dalla loro hanno, se non altro, alcuni sondaggi che affermano come oltre il cinquanta per cento degli italiani si favorevole alla separazione delle carriere dei magistrati. Sintetizzata nella locuzione molto conosciuta, pare una buona cosa: impedire delle sommatorie, delle commistioni, delle ingerenze indebite.

In realtà, pesi e contrappesi esistono già oggi e la missione delle destre, che data dal primo ingresso prepotente del berlusconismo nel campo della giustizia per limitarne i poteri dati dalla Carta del 1948 a pubblici ministeri e giudici, è quella di asservire la magistratura al potere esecutivo, di fare del PM un organo più di polizia governativa invece che un pubblico accusatore che cura gli interessi di tutta la Repubblica (si chiama infatti così… “procuratore“). Il punto in questione, quindi, è il passo in avanti che fa una disarticolazione dell’equilibrio tra i poteri dello Stato, un attacco frontale ad una tenuta democratica che è già compromessa da tre anni di assolutizzazione governativa e di imposizione in tutti gli apparati di persone gradite a Palazzo Chigi.

Uno dei problemi riguardanti proprio il mantenimento del complesso intreccio tra diritti, libertà, doveri e amministrazione del Paese riguarda il rispetto degli ambiti di competenza: formalmente la maggioranza e il governo si muovono nel perimetro costituzionale, non violando alcuna norma. Ma ogni volta che lo fanno, forzano questi limiti non rispettando le prerogative delle opposizioni, acquisendo il potere e non solamente gestendolo pro tempore. C’è già nell’accettazione del referendum sulla riforma della giustizia un chiaro segnale di strumentalizzazione dello stesso: non dovrebbe essere il governo a muoversi in questo senso, ma il suo contraltare parlamentare.

Per Giorgia Meloni si pone comunque la questione, come la si pose per Renzi quando tentò di alterare gli equilibri del sistema magistratuale entro quelli del sistema democratico, di una personalizzazione eccessiva del referendum e, quindi, di trasformare il medesimo in un quesito pro o contro lei, pro o contro il suo governo. Indubbiamente sarebbe improprio impostare così una campagna referendaria su un tema che riguarda essenzialmente altro: ma è innegabile che questa riforma è stata gestita senza pensare ad un minimo coinvolgimento delle opposizioni in un rapporto dialettico, in una interazione che consentisse dei miglioramenti del testo.

Articolo tratto interamente da la Sinistra quotidiana 


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