Articolo da Doppiozero
Robert Redford, l’icona di un’America che credeva ancora nelle proprie istituzioni, se n’è andato proprio mentre il Paese attraversa una crisi di fiducia democratica senza precedenti. Una sincronia crudele. Con lui perdiamo non solo un grande attore e regista, ma anche un’idea di America che aveva contribuito a fissare nella memoria collettiva. Un’America capace di vergognarsi e di correggersi. Un’America che non c’è più. Almeno per i prossimi tre anni e mezzo. Uno stillicidio.
La morte di Robert Redford – sarà una coincidenza – segna la definitiva fine di un’epoca. Non solo cinematografica, ma anche politica. Con lui se ne va il lucido testimone di un tempo in cui si poteva ancora credere che la verità, una volta portata alla luce, sarebbe bastata a cambiare tutto.
La sua era un’America in bianco e nero, come quella raccontata da Perry Mason, l’avvocato del piccolo schermo che aveva insegnato a intere generazioni di telespettatori che si poteva apostrofare il potere con un “mi oppongo”, che i processi duravano lo spazio di un telefilm e la verità, alla fine, avrebbe trionfato mentre un’ottimistica marcetta sonora accompagnava i titoli di coda. Un’America ingenua, forse, ma che credeva ancora nella possibilità della giustizia. Oggi sappiamo che non è più così. Oggi viviamo in un panorama mediatico e politico in cui i fatti hanno perso la loro forza etica capace di rivoluzionare la società. E proprio per questo, il ricordo di Redford, tra l’altro campione di ecologismo avanti lettera, diventa ancora più prezioso.
Il custode di un’America che credeva ancora nei propri sogni
Tutto
nasce da un’infanzia che il futuro Sundance Kid trascorse a Santa
Monica negli anni Quaranta, l’età dell’oro di una California ancora
incontaminata, quando Orange County era ancora un mare di aranceti e
l’agricoltura il motore economico di una terra che non conosceva
l’urbanizzazione selvaggia della San Fernando Valley. Hollywood non
aveva al momento scoperto la televisione, e la fantasia si nutriva delle
voci della radio.
Fu durante un viaggio in auto con la madre verso Yosemite, all’età di undici anni, che la vista di quel paesaggio selvaggio gli cambiò la vita. Come l’incontro successivo con i deserti rocciosi del sud-ovest e i nativi americani, per i quali sviluppò un rispetto profondo, colpito dal loro legame spirituale con la terra. Nel 1960 Redford scelse di trasferirsi nello Utah, all’ombra del Monte Timpanogos. Una fuga consapevole dalla pazza folla hollywoodiana, dove avrebbe maturato quella saggezza antica che avrebbe guidato tutta la sua esistenza: l’impegno per la protezione del pianeta, una visione cinematografica coerente e un’etica politica. Sundance Kid sarebbe diventato il custode di un’America che credeva ancora nei propri sogni.
C’era una somiglianza nel suo ecologismo e nella sua volontà di difendere il cinema indipendente in un momento in cui nessun altro lo faceva. «I due aspetti coincidevano perché soffrivano dello stesso problema», ricordò nel corso di una conversazione con il nipote Conor Schlosser. «L’ambiente soffriva della mancanza di sostegno, di conoscenza e di sensibilità. Il cinema indipendente in quel periodo era altrettanto ignorato. L’industra era controllata dalle major che egemonizzavano tutto e sostenevano che l’indie movie era una perdita di tempo, uno spreco di energie. Quindi, aiutarlo significava dare voce a persone che non avevano altre possibilità, come facemmo con il film Milagro, che raccontava la storia di alcuni agricoltori dell’arido New Mexico che si ribellavano contro la speculazione edilizia per proteggere la loro acqua e il loro stile di vita».
È la stampa bellezza
C’è una perversa ironia nel
fatto che Redford se ne sia andato proprio mentre l’America si trova di
nuovo alle prese con abusi di potere presidenziale di ogni genere e
palesi interferenze elettorali. Sono questioni che echeggiano il
Watergate, il più grande scandalo politico scoppiato negli Stati Uniti
nel 1972 in cui il ruolo della stampa fu cruciale per la difesa della
democrazia contro una massiccia operazione di spionaggio e sabotaggio
politico nei confronti del Partito Democratico, coordinata da alti
funzionari della Casa Bianca e del Comitato per la rielezione del
presidente Richard Nixon.
Ma se allora l’inchiesta di due giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, riuscì a incastrare e far cadere un presidente, oggi viviamo in un panorama mediatico e politico in cui i fatti hanno perso la loro forza etica. Non si tratta di nostalgia per un’epoca d’oro che forse non è mai esistita. Il giornalismo investigativo degli anni Settanta avrà avuto i suoi limiti, le sue cecità, ma quell’inchiesta che diede vita prima al libro e poi al film Tutti gli uomini del Presidente (1976) in cui Redford impersonerà Bob Woodward – con al fianco Dustin Hoffman nei panni di Carl Bernstein – catturava qualcosa di essenziale: l’idea che la democrazia americana avesse ancora gli anticorpi per reagire alla corruzione, che la verità, faticosamente ricostruita, pazientemente verificata, potesse ancora fare la differenza.
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Fonte: Doppiozero
Autore: Claudio Castellacci
Licenza: This is work is licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0 International
Articolo tratto interamente da Doppiozero
Photo credit Georges Biard, CC BY-SA 3.0, da Wikimedia Commons







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