Articolo da la Sinistra quotidiana
Dopo quindici mesi di una guerra spietata, come lo sono un po’ tutte le guerre, perché la guerra è atrocità, spietatezza, orrore, tragedia, omicidio di massa, stupro e vilipendio di qualunque traccia di umanità residua tenti di sfuggirle, dopo tutto questo tempo lunghissimo in cui Gaza è stata ridotta ad un immenso cimitero e ad un deserto fatto di macerie sotto cui giacciono migliaia e migliaia di cadaveri, lo spiraglio della tregua tra Israele ed Hamas sembra concretizzarsi.
Il condizionale – come si suole dire in questi casi – non è solo d’obbligo, è quasi un imperativo categorico anzitutto morale. Perché, se la speranza non deve mai morire, le aspettative non possono essere al di sopra di quelle righe tracciate dalla dirigenza criminale dello Stato ebraico che, senza soluzione di continuità, ha fatto martellare di bombe, missili, cannonate e azioni mirate dei droni dall’aviazione, dall’esercito e dalla marina la piccola Striscia di terra in cui sono assiepati milioni di palestinesi.
Il risultato sono quasi cinquantamila morti (altre fonti parlano addirittura di settantamila), duecentomila feriti gravi: i bambini uccisi da Israele sono diciassettemila. Scriviamolo in numero, forse rende meglio l’orrore che si somma a quello di Hamas del 7 ottobre 2023: 17.000 piccoli uccisi senza alcuna pietà, secondo la logica genocidiaria della sempre più stretta limitazione degli spazi esistenziali per un popolo che si vede sottrarre la sua terra da oltre settant’anni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Di questa violenza quasi secolare, si è visto negli ultimi due anni soltanto quello che l’informazione addomesticata al potere ci ha inteso far vedere: la grande strage compiuta dai terroristi di Hamas e la risposta altrettanto terroristica dello Stato ebraico. Scriveva Brecht: «Tutti vedono la violenza del fiume in piena, nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono». Ci siamo trovati ad assistere dall’esterno ad una guerra di annientamento che non era più la risposta di rappresaglia per i fatti del 7 ottobre 2023 già dopo i primi giorni di bombardamento dal cielo di Gaza e delle altre città della Striscia.
Quando poi ha preso avvio l’invasione di terra, l’occupazione del nord, lo spianamento di Gaza city e la presa di mira non soltanto più dei centri del potere di Hamas, per liberare quegli ostaggi che, in maggioranza, sono ancora nelle mani dell’organizzazione terroristica, ma di tutti gli edifici civili, degli ospedali, delle moschee, delle chiese cristiane e di centri culturali e sociali che nulla avevano a che vedere con la guerra in corso, è parso chiaro che la risposta israeliana non era più legata al sentimento di vendetta per le atrocità compiute nei kibbutz limitrofi alla Striscia e al rave party nel deserto.
Il salto di qualità del conflitto era tale da mostrare al mondo il pretesto per una nuova politica espansionistica. Con una sfacciataggine davvero insulsa, il ministro degli esteri israeliano, rientrando a Gerusalemme in fretta e furia per la stipula della tregua di sei settimane ancora da affinare, ha dichiarato ai microfoni di Radio Rai che Israele si è mosso sempre entro i cardini del diritto internazionale e che la guerra contro Gaza non è stata poi così atroce come viene descritta e che, quindi, non vi sarebbe alcuna sproporzione tra i millequattrocento morti fatti dai criminali di Hamas il 7 ottobre e i quasi cinquantamila morti palestinesi fatti in quindici mesi di crimini contro l’umanità.
Quale che sia il punto di vista da cui si guarda, si osserva e si cerca di capire ciò che si muove nel Medio Oriente e, nello specifico, in quel di Cisgiordania e Gaza, nonché nel sud del Libano, le cifre parlano da sole: la sproporzione esiste, ed è anche tremendamente squallido essere costretti ad un conteggio dei morti, ad una valutazione delle sofferenze. In questa guerra perdono tutti: i palestinesi e gli israeliani per primi e poi anche Hamas, l’ANP quasi come spettatrice passiva della tragedia, e Netanyahu che oggi viene tratteggiato come un vincitore dai giornali più vicini ad una valutazione tutta occidentalista, quindi nordatlantica, dei rapporti di forza più prettamente globali.
Se la tregua reggerà, diverrà abbastanza evidente come questa sarà la premessa per una riconfigurazione del potere israeliano sui Territori occupati e, in primis, in Cisgiordania. Mentre a Doha si dava notizia della sospensione delle ostilità a partire da domenica 19 gennaio 2025, mentre nelle strade di Gaza si sventolavano le bandiere palestinesi e si piangeva di gioia, nella West Bank iniziava ad aleggiare lo spettro della contropartita: la destra ultrareligiosa di Smotrich e di altri fanatici sionisti, per garantire ancora l’appoggio a Netanyahu, lascia intendere che sia giunto il momento di annettere definitivamente quelle che Israele chiama coll’antico nome di Giudea e Samaria.
Fonte: la Sinistra quotidiana
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