sabato 2 dicembre 2023

Cento anni di Maria Callas



Articolo da Doppiozero 

La sua voce fa parte dell’impronta sonora del Novecento. Ha un colore unico, irriducibile a qualsiasi categoria, tecnicamente spesso è vicina all’imperfezione o all’errore, eppure musicalmente è animata da una quasi indicibile drammaticità “organica”, di fascino universale. Grazie al fatto che la sua straordinaria vicenda di ineguagliata cantante-attrice è stata tramandata da un’incessante attività in studio di registrazione (e dal multiforme giacimento delle registrazioni dal vivo, spesso abusive, decisive nella costruzione della sua mitologia), quel timbro, quella capacità di scavare nelle parole, quella potenza espressiva, allo stesso tempo interiorizzata ed esplosiva, sono da settant’anni patrimonio di tutti gli appassionati di opera. Così, il suo canto immediatamente riconoscibile di “upupa leggendaria” (come l’ha genialmente definito Alberto Arbasino) non cessa di essere un punto di riferimento per tutti gli appassionati – al di là degli schieramenti di “tifoseria” – e una pietra di paragone per tutti gli artisti lirici che sono venuti dopo. Ma appartiene in certo modo anche alla totalità del pubblico, a chi segue qualsiasi tipo di musica. E la sua immagine di artista – quand’era in attività, ma per molti aspetti ancora oggi – ha finito per diventare una delle più romanzesche e affascinanti incarnazioni del mito della diva, e per coincidere con quella “fenomenologia” pop che ancora oggi è elemento decisivo nel successo di massa dei protagonisti dello spettacolo. 

La sua vita è stata un melodramma, nel quale un ruolo decisivo ha avuto la sua pericolosa inclinazione a distinguere troppo poco il mondo del palcoscenico da quello della vita reale. Una sovrapposizione particolarmente sconcertante nella sostanziale e più volte affermata immedesimazione con le eroine tragiche nelle cui interpretazioni ha fatto la storia, Norma (Bellini), Medea (Cherubini), Lucia (Donizetti) e Violetta (Verdi). Personaggi che hanno costituito una parte decisiva della sua vita artistica, tutti destinati a soccombere nel fatale incrocio fra i sentimenti e il dover essere interiore. Il suo percorso di dissoluzione umana e artistica – nella crisi irreversibile della sua vocalità – è stato compiuto sotto i riflettori dello star-system e dentro alle meccaniche stranianti del cosiddetto jet-set internazionale, fino a un destino di solitudine e di abbandono suggellato dalla morte precoce – avvenuta improvvisamente nel settembre del 1977, un mese e mezzo prima del suo cinquantaquattresimo compleanno.

A cent’anni dalla nascita, ripensare a Maria Callas, nata Kalogeropoulou il 2 dicembre 1923 in un ospedale di New York (dove i genitori, entrambi greci, erano emigrati da pochi mesi), significa dunque ripercorrere una delle vicende cruciali del teatro musicale nel Novecento, anzi del teatro in senso generale, e un capitolo fondamentale nella storia della vocalità. Incrociandone le dinamiche e il fascino con la vera e propria metamorfosi umana e sociale della protagonista e con il dramma esistenziale sempre incombente che alla fine ha avuto ragione di lei. Una storia sintomatica, per molti aspetti anticipatrice di fenomeni che la società dello spettacolo avrebbe in seguito conosciuto più volte.

Per quanto riguarda la voce, da tempo gli storici e i musicologi più avvertiti hanno messo a fuoco l’importanza della sua “rivoluzione musicale”. Si tratta di un approccio esecutivo severo e allo stesso tempo rivelatorio, di assoluta dedizione alle partiture e alla forza drammatica insita nel virtuosismo belcantistico disegnato da autori come Bellini, Rossini, Donizetti o il primo Verdi, fra Nabucco e Macbeth, Rigoletto e La traviata, ma anche da compositori meno presenti nel repertorio come Cherubini, Spontini, o Gluck. Oltre le dispute degli specialisti sulla disomogeneità dei suoi registri e sulla problematicità specialmente di quello acuto, è questo naturalmente il lascito più autentico della Callas. La sua è un’eredità artistica che è metodologica prima ancora che esecutiva: riguarda la maniera in cui ha fatto piazza pulita di una tradizione esecutiva nel melodramma che nella prima metà del XX secolo sembrava avere fatto proprie definitivamente (e per molti aspetti rovinosamente) le modalità espressive, e dunque di tecnica vocale, proprie del tardo Romanticismo e soprattutto del Verismo.

La sbalorditiva affermazione di questa rinnovata adesione alla pura poetica del belcanto, un ritorno all’antico che ha avuto l’effetto di una decisiva innovazione, ha una data e un luogo di nascita. La storia inizia il 19 gennaio del 1949 alla Fenice di Venezia, auspice uno dei direttori d’orchestra più importanti che l’Italia abbia avuto nel XX secolo, il veneto Tullio Serafin, il primo e probabilmente più decisivo mentore musicale del soprano greco. Era stato lui a dirigerla nel suo debutto italiano, avvenuto un anno e mezzo prima all’Arena di Verona (agosto del 1947) in Gioconda di Amilcare Ponchielli. Ed è ancora lui che dopo averla fatta cantare in una versione in italiano della Valchiria di Wagner, ne scopre la più autentica vocazione invitandola – anzi quasi imponendole di sostituire il soprano inizialmente ingaggiato per I Puritani di Bellini, in programma pochi giorni dopo. Nel pochissimo tempo a disposizione, la Callas impara la parte mai prima affrontata e debutta trionfalmente.  

La vicenda fotografa come meglio non si potrebbe la personalità di questa cantante unica: un’assoluta dedizione alla musica, una professionalità che non si ferma di fronte a nessuna difficoltà pratica, la capacità di entrare nello stile delle partiture affrontate con una profondità sconosciuta all’epoca. Il risultato, come ha scritto lo storico dell’opera e studioso della vocalità Rodolfo Celletti rievocando quell’evento, fu che «… la Callas annullò i divari di ruoli e di parti che nella prima metà del secolo avevano scisso i soprani in “leggeri”, “lirici” e “drammatici”. Bellini aveva composto la parte di Elvira per Giulia Grisi, che di lì a poco divenne un’eminente Norma. Questo dà un’idea dei restauri che la Callas promosse. La scena della pazzia di Elvira le ispirò fraseggi ampi, oppure intimizzati, e nelle agilità di “Vien diletto” (l’aria alla fine del secondo atto dei Puritani; n.d.r.) una vocalizzazione dolce e penetrante riesumò il grande canto di altri tempi».

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Fonte: Doppiozero


Autore: 
Cesare Galla

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Articolo tratto interamente da 
Doppiozero


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