martedì 12 settembre 2023

Che cos’è avvenuto nelle Isole Ionie nel settembre 1943?

Katavothres execution pit


Articolo da Novecento.org

Abstract

Nel quadro degli eventi militari collegati alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre, la vicenda della divisione Acqui a Cefalonia e Corfù nel 1943 resta senz’altro la più significativa, non solo perché si tratta dell’azione più consistente di resistenza armata ai tedeschi tra quelle attuate nei giorni immediatamente successivi – e, almeno idealmente, può essere considerato, anche se questa interpretazione non è da tutti accettata, uno degli atti che apre la Resistenza al nazi-fascismo – ma perché rappresenta, per numero di vittime, la maggiore strage perpetrata dai tedeschi nel corso della Seconda guerra mondiale a danno di cittadini italiani e l’unico episodio in cui vengono uccisi in massa, dopo la resa, anche i soldati.
Data la complessità dei fatti e la presenza di contrapposte memorie e interpretazioni, anche nell’ambito della storiografia più accreditata, essa può costituire un’importante palestra su cui impegnare gli studenti, perché possono operare sui documenti ufficiali, sulle testimonianze dei superstiti e dei testimoni, sul confronto dei testi di ricercatori e storici.

TESTO ESPERTO: I fatti  

L’eccezionalità di un evento

Dopo trentanove mesi di guerra a fianco della Germania nazista, il governo italiano del maresciallo Pietro Badoglio – che ha sostituito da poche settimane Benito Mussolini, destituito dal re Vittorio Emanuele III il 25 luglio – sottoscrive l’armistizio con i Paesi delle Nazioni unite, in primo luogo con gli Stati uniti e con la Gran Bretagna, armistizio che viene reso noto nel pomeriggio dell’8 settembre 1943.

Considerato dagli Alleati una “resa incondizionata”, l’armistizio fu affrontato dal re Vittorio Emanuele, dal capo del Governo Badoglio, dal capo di Stato Maggiore Ambrosio in maniera, secondo la maggior parte dei commentatori, irresponsabile e tale da determinare la disgregazione di una forza armata che a quel momento contava più di due milioni di soldati e occupava la Provenza e parte dell’Area balcanica assieme alle truppe tedesche.

Nel giro di pochi giorni gli ex alleati disarmarono oltre un milione di italiani, i reparti, soprattutto in Iugoslavia, in Albania e in Grecia, si trovarono tra i due fuochi dei tedeschi e delle forze partigiane.

Il proclama di Badoglio letto al microfono dell’EIAR nel tardo pomeriggio concludeva, ambiguamente, con queste parole: “ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.”

Sulla base di queste disposizioni generali, poco dopo, il comandante dell’armata italiana in Grecia, il generale Vecchiarelli, faceva arrivare ai comandi divisionali dislocati sul continente e sulle isole un messaggio che confermava sostanzialmente la linea attendista: “Se i tedeschi non faranno atti di violenza, truppe italiane non rivolgeranno armi contro di loro. Truppe italiane non faranno causa comune con i ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero, reagiranno con la forza ad ogni violenza armata”.

A Cefalonia e a Corfù queste disposizioni sono trasmesse ai reparti, che quindi si preparano, anche psicologicamente, a tenere le posizioni fino all’arrivo di ordini più precisi, comunque pronti a reagire a iniziative aggressive di qualsiasi provenienza.

Il mattino successivo da Atene arriva un secondo messaggio, che imporrebbe la cessione delle armi pesanti e di prepararsi al rientro in patria a cura dei mezzi tedeschi: l’ordine non viene comunicato ai reparti, perché appare o viene comunque interpretato come apocrifo, perché scritto sotto dettatura; i tedeschi, in effetti, avevano preso il sopravvento sul comando italiano nel corso della notte.

In alcune isole le truppe germaniche non hanno uomini e imbarcazioni per risolvere rapidamente a proprio favore lo scontro e la sottomissione delle divisioni italiane. I comandanti italiani hanno così il tempo per prendere coscienza della situazione complessiva e assumere le decisioni necessarie a fronteggiare un attacco, che prima o dopo sarebbe sicuramente avvenuto. Questa situazione si verifica in particolare in Sardegna, in Corsica, in alcune isole del Dodecaneso e, appunto, a Corfù e a Cefalonia.

È in questo contesto che vengono prese le decisioni dei comandanti delle due Isole dell’Eptaneso o Joniche: il generale Antonio Gandin a Cefalonia e il colonnello Luigi Lusignani a Corfù. A differenza della grandissima parte dei comandanti di Grandi Unità, assieme a pochi altri alti ufficiali, essi affrontano lo scontro con i tedeschi, che purtroppo si conclude con la sconfitta dei loro reparti e con la loro uccisione.

Che cos’è avvenuto nelle Isole Ionie nel settembre 1943?

A Cefalonia vi sono tra 9.000 e 11.000 soldati e sottufficiali italiani, gli ufficiali sarebbero secondo le valutazioni tedesche meno di 400, gli italiani indicano tradizionalmente la cifra di 525. Un presidio tedesco di 1.800 uomini è presente sull’isola, in una situazione di momentanea inferiorità. Tra il 9 e l’11 settembre, su richiesta del comandante tedesco, tenente colonnello Hans Barge, il generale Antonio Gandin accetta di consegnare l’importante posizione di Kardakata e il controllo del porto di Argostoli; il giorno 11 Barge chiede di cedere le armi sulla base dell’ordine giunto a Cefalonia dal Comando di Atene. Gandin rifiuta e avvia una trattativa per essere rimpatriato in Italia con le armi.
Il 12 settembre, Gandin ordina a cinque battaglioni di Fanteria di depositare le armi nei magazzini, ma è costretto a rinunciare per la reazione che si diffonde nei reparti e per l’opposizione di alcuni ufficiali.

Il giorno 13, le artiglierie italiane presenti nella baia di Argostoli, sede del Comando italiano, colpiscono due grosse zattere che cercano di sbarcare truppe tedesche e, divenuta evidente la diffusa avversione alla cessione delle armi, il generale decide di consultare anche i reparti sulle tre alternative possibili: «contro i tedeschi, insieme ai tedeschi, cessione delle armi». Prevale tra i soldati la prima scelta, anche se vi è la consapevolezza che i tedeschi sul continente interverranno rapidamente in appoggio al distaccamento presente sull’isola maggiore.

Il giorno 14 Gandin invia al Comando tedesco una «notifica» in cui comunica che la Divisione si rifiuta di accettare l’ordine di resa e che è disposta a combattere pur di mantenere le armi. Il giorno successivo, mentre sono ancora in corso trattative tra le due delegazioni, l’aviazione nemica inizia a bombardare la città di Argostoli e le postazioni italiane. Poco dopo inizia l’attacco da terra. I combattimenti vedono una iniziale prevalenza italiana, con la resa dei tedeschi attestati nel capoluogo; si cerca di riconquistare le posizioni cedute ai tedeschi nei giorni precedenti ma con scarsi risultati e con molte perdite, avendo subito i pesanti bombardamenti degli Stukas.

Mentre dall’Italia risulta impossibile inviare aiuti, nei giorni successivi, a ovest e a nord dell’isola, riescono a sbarcare reparti tedeschi con armamento pesante. Dopo una settimana di combattimenti, il giorno 22, la divisione Acqui si arrende. Nei combattimenti muoiono centinaia di soldati italiani e decine di ufficiali; i sopravvissuti ai combattimenti «sono trattati secondo gli ordini del Führer» e, man mano che si arrendono nel corso della battaglia, contrariamente a tutti i regolamenti internazionali che definiscono i comportamenti degli eserciti belligeranti, sono immediatamente passati per le armi. Secondo le valutazioni dei comandanti tedeschi e di una parte delle fonti italiane, i caduti sono complessivamente circa 4.000, compresi gli ufficiali; ma negli ultimi anni alcuni storici hanno ridimensionato queste cifre, indicando in circa 2.500 il numero dei militari italiani morti a Cefalonia tra il 15 e il 25 settembre 1943.

Dopo la resa della Divisione, avvenuta il 22 settembre, la vendetta tedesca si concentra sugli ufficiali sopravvissuti, che vengono separati dai soldati e dai sottufficiali e sistematicamente eliminati: tra il 24 e il 25 settembre, alla casetta rossa di capo San Teodoro, nei pressi di Argostoli, capoluogo di Cefalonia, vengono fucilati quasi tutti gli ufficiali prigionieri, forse 129 secondo i dati più accreditati, altri 7 il giorno 25, ma probabilmente i numeri reali sono più alti.

Si salvano dalle fucilazioni una quarantina di ufficiali, costretti ad aderire alla Repubblica sociale italiana e quasi tutti trasferiti in Germania in campi di addestramento. Una parte dei corpi dei soldati uccisi, oltre agli ufficiali caduti a capo San Teodoro, è gettata in mare all’entrata della baia di Argostoli, mentre altre centinaia di corpi sono bruciati in grandi falò che illuminano la notte dell’isola. Tutti gli altri resti sono abbandonati senza alcuna sepoltura.

Anche a Corfù il comandante, colonnello Lusignani, con circa 4.000 uomini, decide di respingere l’ultimatum tedesco e di combattere. Nei giorni successivi giungono due cacciatorpediniere italiani, che vengono però colpiti; gli inglesi promettono aiuti, ma non arriveranno in tempo.

Il 24 settembre i tedeschi riescono a sbarcare in forze e il giorno successivo gli italiani sono costretti alla resa. Nei combattimenti o in seguito alle fucilazioni avvenute immediatamente dopo la fine degli scontri muoiono 640 tra soldati, sottufficiali e ufficiali, tra questi i colonnelli Luigi Lusignani ed Elio Bettiniche sono fucilati assieme ad altri 25 ufficiali dopo la resa, mentre i feriti sono 1.200, ma non vi sono i massacri di massa di Cefalonia. Molti uomini cercano di fuggire via mare, la maggior parte viene catturata e trasferita in Germania.

La sorte dei sopravvissuti

Finita la strage, nelle Isole Ionie rimangono tra 9.000 e 10.000 prigionieri italiani, 5.000 dei quali sono i sopravvissuti di Cefalonia. Altri soldati moriranno, per la fame e gli stenti, nei centri di raccolta dell’isola, dove rimarranno circa un migliaio di prigionieri fino alla partenza dei tedeschi, nel settembre del 1944, o nei diversi campi di deportazione allestiti nell’area balcanica e nell’Europa dell’Est, circa 2.500 in totale, che seguiranno le vicissitudini degli altri 6-700.000 soldati italiani internati dal governo tedesco; dei 6.400 prigionieri imbarcati a Cefalonia per essere trasferiti sul continente, in Grecia, di cui alcuni provenienti da altre isole, circa 1.350, quasi tutti soldati sopravvissuti all’eccidio di Cefalonia, moriranno nell’affondamento di tre navi; da Corfù partiranno circa 9.100 soldati, molti però già provenienti da reparti catturati sul continente, l’affondamento di una nave trasporto provoca molte centinaia di morti, ma è impossibile attribuire le vittime ai reparti di origine. Nel novembre 1944, i militari italiani rimasti a Cefalonia, a cui si erano aggiunti uomini provenienti dal continente, in totale circa 1.300 soldati, inquadrati nel Raggruppamento banditi Acqui agli ordini del capitano Apollonio, rientrano in Italia, a eccezione di un centinaio di volontari che continueranno la lotta assieme ai partigiani comunisti. Alla fine della guerra, dei circa 5.000 sopravvissuti della divisione Acqui a Cefalonia solo 3.500 saranno riusciti a tornare in Patria.

L’armistizio dell’8 settembre 1943 e gli ordini contraddittori ai reparti

Sul piano analitico, è bene distinguere la logica degli avvenimenti delle due Isole: mentre essa è lineare e coerente nel caso di Corfù, appare assai più complicata e contradditoria a Cefalonia, aprendo così la porta a interpretazioni dei fatti e delle decisioni anche assai differenti.

A Corfù, il Comandante non dà seguito agli ordini di disarmo provenienti dai comandi superiori di Tirana e di Atene, perché considerati contrari a quanto deciso dal Governo e all’onore militare: egli respinge immediatamente l’ultimatum tedesco di resa, contrasta con successo il primo improvvisato tentativo di sbarco il giorno 13, quindi affronta l’attacco finale del 23-26 settembre, fino alla resa e alla fucilazione di 27 ufficiali il giorno 27, tra questi il colonnello Lusignani e il colonnello Bettini della divisione Parma. Non vi sono particolari divergenze nel giudizio su questi fatti e circa le scelte del Comandante.

A Cefalonia i fatti si sviluppano secondo linee meno nette e con maggiori ambiguità.

Da una parte, le truppe sono messe in stato d’allarme e si diffonde da subito la convinzione che il messaggio di Badoglio e il primo di Vecchiarelli, reso noto ai reparti, anche se non esplicitamente prevedano di predisporsi a reagire a un eventuale attacco tedesco, che appare inevitabile, e di impegnarsi a mantenere la situazione sul terreno esistente al momento dell’Armistizio.

Dall’altra, il Generale comandante si orienta verso la trattativa col nuovo nemico, alla ricerca di una soluzione la più possibile favorevole per i suoi uomini, ovvero il trasferimento con le armi individuali a cura dei mezzi navali tedeschi in Italia, anche giocando sul rispetto e la fiducia che in passato si era guadagnato nel rapporto diretto con alcuni dei massimi comandanti germanici.

Quella di una resa “onorevole”, su cui molti commentatori hanno espresso un giudizio accondiscendente e complessivamente assolutorio, è invece una mera illusione, considerando quali sono le intenzioni della controparte, che non ha dubbi sulla necessità di trasferire i reparti italiani, disarmati, verso i campi di internamento del centro Europa, nel più breve tempo possibile, con l’unica eccezione per coloro che scelgano di continuare a combattere con loro, giurando fedeltà al Reich tedesco.

Mussolini viene liberato dal suo luogo di detenzione sul Gran Sasso solo il giorno 12 e il regime collaborazionista della Repubblica sociale italiana nasce il 23 settembre: sono i giorni della trattativa e della battaglia di Cefalonia.

Quello che restava dei vertici della Monarchia italiana si era consegnata nelle acque del basso Adriatico alle navi inglesi nella giornata del 10 e l’11 aveva ripreso in qualche modo a dirigere quanto ancora poteva essere considerato efficiente delle forze armate italiane: i reparti presenti in Corsica e in Sardegna, a Cefalonia e a Corfù, in alcune isole del Dodecaneso che ancora non si erano arrese, in Puglia.

I tedeschi, che tra l’8 e il 9 si sono trovati nel momento di maggior crisi, tra il 10 e l’11 settembre riescono a contenere lo sbarco nella zona di Salerno, a disarmare le divisioni ben armate che difendono Roma, a distruggere gran parte del dispositivo militare italiano, con decine di migliaia di uomini ormai privi di comando che con ogni mezzo cercano di fuggire alla loro morsa e a quella delle formazioni partigiane in Iugoslavia, in Albania e in Grecia.

Per questo l’ordine di combattere i tedeschi, inviato da Brindisi l’11 settembre, non solo arriva tardi, ma mette gli ufficiali e i soldati italiani nelle peggiori condizioni per affrontare le truppe germaniche e la loro rappresaglia. Ben altri risultati avrebbe avuto un comportamento complessivamente coerente da parte dei vertici italiani, che avesse unito alla dichiarazione di armistizio, anche gli ordini operativi ai reparti per opporsi all’ex alleato e la dichiarazione di guerra alla Germania.

Al di là delle considerazioni di carattere più generale, è ormai convinzione di molti commentatori che riguardo a Cefalonia vi sia qualcosa di più, un accanimento particolare sui sopravvissuti della divisione Acqui, evidente anche a distanza di mesi, tanto che gli italiani prigionieri evitano di dichiarare la propria appartenenza alla Divisione, per evitare comportamenti ancora più sprezzanti e punitivi.

I tedeschi si sono convinti, durante le trattative, della buona disponibilità di Gandin, ma a partire dal giorno 13 si rendono conto dell’agitazione che domina i reparti italiani, prima quelli della Marina e dell’Artiglieria, poi quelli della Fanteria. Attraverso il loro comandante sull’isola, il tenente colonnello Barge, si convincono che il Generale non abbia più il controllo dei suoi uomini.

Certamente l’intenzione di Gandin non è di mettere i suoi uomini a disposizione della vendetta e della punizione, terribile, tedesca, ma purtroppo l’effetto è quello: gli uomini della Acqui a Cefalonia non sono solo “traditori” e “franchi tiratori”, ma “ammutinati” agli ordini del Comandante.

Effettivamente, la violenza e il disprezzo che seguiranno i combattimenti e la resa, saranno proporzionati al coraggio e alla capacità di resistenza degli italiani combattenti e gli uomini di Hirschfeld e di Klebe, gli ufficiali al comando dei battaglioni tedeschi, si accaniranno con maggiore violenza proprio su quelli che dimostreranno di volere combattere con più decisione e sprezzo del pericolo.

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Fonte: Novecento.org


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Articolo tratto interamente da Novecento.org

Photo credit Anastasia Mountaki, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons


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