venerdì 5 agosto 2022

L'indimenticabile Marilyn Monroe



Articolo da DinamoPress

La notte tra il 4 e il 5 agosto di sessanta anni fa terminava, a soli 36 anni, la vita terrena di Marilyn Monroe: il suo mito è invece a tutt’oggi vivissimo. Proprio perché senza tempo, la mitologia costruita intorno alla sua figura viene continuamente riplasmata dalle epoche che – indenne – attraversa: ma è necessario chiedersi se la visione di una Marilyn tutta contemporanea non sia meno superficiale e svilente di quella della «stupida bionda» in voga negli anni ’50


Just because I’m blonde
Don’t think I’m dumb
Cause this dumb blonde ain’t nobody’s fool

(Dolly Parton, Dumb blonde, 1967)

L’anno scorso, a un tratto, ho avuta chiara la consapevolezza di essere ormai più “grande” di quanto Marilyn Monroe sia mai potuta diventare. Si trattava di appena qualche mese, ma la sensazione era davvero strana per un’adulta che era stata una bambina, e poi una ragazza, e poi una (ancora giovane) donna cresciuta con un’ossessione per il personaggio di Monroe. Un’ossessione iniziata, a mia memoria, da che ho iniziato a leggere: quel personaggio di bionda sensuale e – nelle biografie che leggevo – infelice ha iniziato a intrigarmi trent’anni fa e ricordo chiaramente il mio desiderio infantile di riscriverne la storia “dalla sua parte” e gli appunti sulla sua vita nei miei quaderni e diari delle elementari. Allora, non avevo gli strumenti per capire che aveva partecipato attivamente al milieu culturale e politico della sua epoca, che aveva simpatizzato per gli ideali comunisti e per la rivoluzione cubana e si era fatta negli anni sempre più politicamente radicale (del resto, non sapevo neanche che io stessa mi sarei politicamente collocata dalla stessa parte), che era stata una lettrice vorace e intellettualmente curiosa: eppure, avvertivo istintivamente che l’immagine di dumb blonde, di bionda stupida, con cui era stato veicolato il suo personaggio fosse troppo stretta.

Erano, del resto, i primi anni ’90: la feminist film theory non aveva ancora investito l’interpretazione dei film dei quali era stata protagonista e, almeno per quanto mi era dato sapere, non avevano attecchito molto neanche le riflessioni della femminista statunitense Gloria Steinem, figura di primo piano dell’attivismo degli anni ’60 e ’70, fondatrice della rivista Ms. e autrice nel 1986 di un articolo su Monroe intitolato The woman who died too soon (La donna che morì troppo presto) e, poi, di una bella biografia intitolata Marilyn/Norma Jeani (1988). Anche Steinem aveva voluto scrivere mettendosi dalla sua parte, ma venticinque anni fa io mi imbattevo solo in volumi che riproponevano la concezione secondo cui, per dirla con le parole di Marilyn stessa, «se ti capita di avere i capelli biondi, sei considerata stupida. Io non so perché accada. Penso che sia una concezione molto limitata». O forse, se non stupida, fragile, instabile, ignorante, schiacciata dagli uomini e dalla 20th Century Fox. In Italia, la concezione del suo personaggio era del resto ancora peggiore, anche perché nel doppiaggio, i dialoghi dei suoi film sono stati tradotti in modo da rendere i suoi personaggi ancora più dumb: ad esempio, in Facciamo l’amore, laddove nell’originale inglese la protagonista Amanda studiava per prendere il diploma, nella traduzione italiana deve ancora finire le elementari.

Poiché quello di Monroe è un mito intramontabile, però, da allora di passi avanti se ne sono fatti: come per tutti i personaggi universali, anche la sua figura viene continuamente reinterpretata “con gli occhi di oggi”. Non senza alcune forzature.

Mentre, da un lato, la feminist film theory ha cominciato a occuparsi di alcuni suoi film – ad esempio, evidenziando come Gli uomini preferiscono le bionde sia la storia di un’amicizia e di un sodalizio tra donne –, dall’altro sono fiorite una serie di biografie in cui viene sottolineato il «femminismo involontario» di Monroe: penso principalmente ai volumi di Sarah Churchwell (2004), di Lois Banner (2012), che di lei parla come di una proto-femminista, e di Michelle Morgan (2018), che nel titolo stesso del suo libro la descrive come una unlikely feminist (improbabile femminista). Nessuno dei tre è stato tradotto in italiano, come ancora non tradotta (e neanche sottotitolata) è la docu-serie prodotta e mandata in onda dalla CNN a inizio 2022, Reframed: Marilyn Monroe, che di queste nuove interpretazioni raccoglie tutti gli stimoli e si concentra sull’agency di Monroe.

Vengono così sottolineate la sua forza, la sua intelligenza, la sua indipendenza e la sua continua ribellione alla Fox: il femminismo di Monroe sarebbe direttamente un femminismo della terza ondata – senza passare per la seconda –, il femminismo delle donne che sanno di avere potere attraverso la sessualizzazione del proprio corpo. Riflessioni simili, di recente, sono state argomentate da Sarah Smarsh in un bellissimo volume di storia sociale e culturale su Dolly Parton, un’altra bionda e ipersessualizzata eroina della working class statunitense: una classe sociale le cui donne sanno bene di avere una sola arma a loro disposizione, il corpo appunto.

Questa nuova concezione si fonde a tratti con il perpetuo elogio della vittima del senso comune contemporaneo e ancora si leggono articoli su come la cultura maschilista ha ucciso Marilyn Monroe e su come «in quanto donna, e soprattutto in quanto bella donna, Marilyn fu relegata a essere sempre l’oggetto rappresentato». Una concezione, invero, difficilmente conciliabile con la biografia di Monroe, che fu anzi una self made woman, anche se spesso travolta da forze più grandi di lei: la fragilità derivante da un’infanzia difficile; l’abuso di antidolorifici, barbiturici, sonniferi e anfetamine, spesso mischiati; il dolore provocato dall’endometriosi che la soverchiava ogni mese e che la costrinse a sottoporsi a frequenti interventi chirurgici.

Se è necessario quindi reframe – riformulare, mettere in una nuova cornice – la figura di Monroe, dovremmo chiederci come farlo. Perché se la cultura maschilista impatta sulla vita di chiunque – uomini e donne – e la plasma, forse perpetuare la vittimizzazione di Monroe, come esaltare l’agency di ogni istante della sua vita, potrebbe essere non meno svilente e sovradeterminante dello stereotipo della dumb blonde degli anni ’50 e ’60.

La vita delle persone non è fatta di bianchi o neri, ma di bianchi neri: le semplificazioni, anche se volte a ripulire una rappresentazione stereotipata, sminuente e umiliante, non sono molto utili a fare giustizia. Le lenti, scheggiate, attraverso le quali leggere la figura di Monroe potrebbero e dovrebbero essere quella della complessità e quella del “frammento”, come il titolo – Fragments – di una raccolta di suoi appunti e poesie pubblicata una decina di anni fa.

Marilyn Monroe e il rapporto con Hollywood

Se c’è un aspetto nella vita di Monroe in cui la sua agency è evidente è proprio quello relativo alla costruzione della sua carriera: Norma Jean Baker Mortenson – questo il suo vero nome – diventa Marilyn proprio nonostante e controla Fox, la sua casa di produzione, e non grazie a essa. Il suo è un successo che viene dal basso: sono i suoi ammiratori e le sue ammiratrici, il successo dei suoi film, a farla diventare un mito indiscusso della scuderia della Fox, che pure l’aveva inizialmente licenziata perché ritenuta poco fotogenica. La Fox non investe in lei, non crea il suo personaggio: è Monroe stessa che si crea da sola, offrendo un mix di sensualità e fragilità, di malizia e innocenza, di disponibilità e vulnerabilità che costituisce il confine all’interno del quale negli Usa degli anni ‘50 iniziava a essere consentito alludere alla sfera sessuale. Porta all’estremo questo stereotipo di donna, lo tira, lo allarga: e, per questo, lo infrange.

Come riportano in un bel libro di due suoi amici, il fotografo Sam Shaw e il poeta Norman Rosten, lei stessa affermava «che la gente – se io sono una star – la gente ha fatto di me una star. Nessuno studio, nessuna persona singola, ma la gente». Fino all’ultima intervista su Life, pochi giorni prima della sua morte, afferma di amare gli apprezzamenti che le rivolgono i netturbini per strada: è la sua gente, è il suo pubblico.

I bambini, gli anziani e i lavoratori (workingmen) sono gli unici, dice, a trattarla spontaneamente: si tratta delle parole di una donna della working class (quando viene fotografata per la prima volta fa l’operaia in una fabbrica di paracaduti per l’esercito, durante la seconda guerra mondiale), che con essa si sente in sintonia. È questo il pubblico che la “perdona” per aver posato nuda per un calendario, in cambio dei 50 dollari che le servono per riscattare l’automobile dal pignoramento e pagare l’affitto. La classe operaia statunitense conosce bene il valore di 50 dollari quando non si ha di che pagare la cena, come conosce bene il valore dell’automobile, mezzo di indipendenza ed emancipazione per le donne povere: mentre la Fox avrebbe voluto che negasse di essere lei in quelle foto, tornate alla ribalta anni dopo, Monroe – convinta, come disse in più occasioni, di non aver fatto nulla di male – sa che, anche nella pudica America degli anni ’50, con il suo pubblico basta la sincerità.

Dell’ambiente di Hollywood, l’attrice non sopporta, oltre all’ipocrisia, neanche le molestie e le attenzioni non gradite alle quali una ragazza giovane e attraente viene sottoposta all’inizio della sua carriera. Nel gennaio 1953, quando il successo non è ancora arrivato pienamente, su Motion Picture, firma un articolo intitolato Wolves I have known (I lupi che ho conosciuto): non si sente una vittima, esprime disagio, tratta con disprezzo ma anche con ironia le molestie subite (compresa quella di un poliziotto), afferma di aver imparato a gestirle e parla con l’orgoglio dell’astuzia necessaria per far fronte a questi «maschi predatori». Si poteva presagire che non si sarebbe fatta ingabbiare nel ruolo della dumb blonde.

Già nel 1954, dopo i primi successi, rifiuta di fare il film The girl in pink tights, non solo perché Frank Sinatra, il coprotagonista protagonista maschile, avrebbe guadagnato tre volte quello che avrebbe guadagnato lei (1.500 dollari a settimana lei, 5.000 lui), ma soprattutto perché non le è consentito di visionare e approvare preventivamente la sceneggiatura.

Non si presenta il primo giorno di riprese, nonostante le minacce della Fox di sospenderle il contratto e, poi, l’effettiva sospensione. La sua protesa, quasi uno “sciopero” solitario, è vittoriosa: quando finalmente le arriva il copione per la sua pre-approvazione ha la conferma che si tratta di una storia noiosa e sciocca e comunica allo studio che non avrebbe fatto il film.

Dopo il successo, lo stesso anno, di Quando la moglie è in vacanza, con la stessa caparbietà decide di prendere il controllo sul suo destino. Lascia Hollywood, si trasferisce a New York e nel 1955 crea la Marilyn Monroe Production: è la sua dichiarazione di indipendenza. È la seconda donna nella storia statunitense a creare una casa di produzione, la prima a detenerne la maggioranza delle quote (51%). L’obiettivo è quello di avere il pieno controllo sulla sua carriera, scegliendo ruoli, copioni e registi, e di produrre indipendentemente i film che le piacciono: non può smettere di essere Marilyn Monroe, ma vuole dimostrare ciò che Marilyn Monroe può essere. È questo il periodo in cui probabilmente si sente più prigioniera non tanto del personaggio, quanto del successo, tanto che in un appunto personale del 1955 o del 1956 scrive: «Sono M.M. – non mi è permesso: problemi, apprensione, umanità, gaffe, errori e i miei pensieri».

A New York comincia a frequentare le lezioni di recitazione all’Actors Studios di Lee Strasberg, dopo che già dal 1948 le prendeva da Natasha Lytess e poi da Michail Cechov: perfezionista all’inverosimile, vuole diventare un’ottima attrice e non essere un «fenomeno erotico da baraccone» (come disse a Checov), vincendo quell’insicurezza che, in un appunto personale del 1951, le aveva fatto scrivere di avere «paura di farmi dare le battute nuove/ forse non riuscirò a impararle/ forse sbaglierò/ penseranno che non sono brava oppure rideranno o mi criticheranno o penseranno che non so recitare/ Le donne avevano un’espressione severa e critica – ostile e fredda in generale/ paura che il regista pensi che non sono brava. / […] Ho avuto momenti straordinari ma le cose negative sono più pesanti da portarsi dietro e da sentire / non trovo sicurezza/ depressa pazza». Nel corso della sua (tutto sommato breve) carriera vince tre Golden Globe e un David di Donatello: nel 1999 l’American Film Institute l’ha quotata come la sesta migliore attrice di sempre.

I suoi sforzi e la sua battaglia contro la Fox vengono ancora una volta premiati: nel 1957 la Marilyn Monroe Productions rinegozia con la Fox il suo contratto, basandolo sulla non-esclusiva. Le offrono 100.000 dollari per fare altri quattro film in sette anni e ottiene di avere l’approvazione preventiva per ogni progetto, oltre che il diritto di controllo preventivo sulle sceneggiature, sui registi e sui direttori di fotografia. È una vittoria su tutta la linea.

La Marilyn Monroe Production ha una vita breve e produce solo due film: Il principe e la ballerina e, insieme alla Fox, Fermata d’autobus, una delle sue migliori interpretazioni. Ma, alla fine del 1961, Monroe non ha abbandonato i suoi progetti di autonomia e pensa di fondare un’altra casa di produzione, questa volta con l’amico Marlon Brando e con il maestro Lee Strasberg, a Hollywood. Un progetto che non fa in tempo a diventare realtà. 

Ancora nel 1962, fino alla fine dei suoi giorni, Monroe continua ad affermare la sua indipendenza: il 19 maggio vola a New York alla festa di compleanno di John Kennedy mentre la Fox minaccia di licenziarla per le sue assenze dal set di Something’s got to give. E, in effetti, l’8 giugno viene licenziata e il film rimane incompiuto. 

Nelle settimane successiva posa per quelli che sono probabilmente i due suoi servizi fotografici più belli: quello di George Barris e quello di Bert Stern. Ha 36 anni, è appena stata licenziata e ha paura di invecchiare: eppure coi due fotografi si sente a suo agio e decide di posare per il primo in costume e per il secondo nuda, forse per dimostrare alla Fox e al mondo che il suo successo non ha imboccato la parabola discendente. È più magra – e, a mio avviso, più bella – che mai: allegra e spontanea, non ha timore di mostrare rughe, lividi e cicatrici sul corpo e sul viso naturalissimo – nelle foto di Barris quasi struccato – di una donna della sua età. Appare più felice e rilassata di come era sembrata nelle foto di buona parte della sua vita. Oggi parleremmo di body positivity, lei disse a Barris che quelle imperfezioni dimostravano semplicemente che era umana. 

A poche settimane da quelle foto, la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962, il suo corpo viene ritrovato senza vita. Di lei e della sua agency, come ultimo atto, rimangono le X arancione, tracciate pare con un rossetto, sulle foto di Stern che non le erano piaciute: la scelta, fino alla fine, rimane la sua.


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Fonte: DinamoPress


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Articolo tratto interamente da DinamoPress



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