martedì 5 luglio 2022

Emergenza climatica, la politica è sempre ferma



Articolo da Valigia Blu

Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

Il disastro di Punta Rocca è stata una tragedia inattesa di un’emergenza annunciata, scrive lo scrittore e giornalista Fabio Deotto su Fanpage

Inattesa, perché il fronte di 200 metri che ha ceduto domenica scorsa è stato fermo per centinaia di anni; annunciata, perché “nell’ultimo secolo il ghiacciaio della Marmolada si è ridotto del 90%, e questo con ogni probabilità è stato il fattore più determinante per quello che è successo a Punta Rocca”.

“C’è una frase che non riesco a togliermi dalla testa” tra tutte quelle sentite in queste ore, scrive Deotto, ed è: «Quella calotta è lì da centinaia di anni, nessuno poteva immaginarsi una cosa simile». È una frase particolarmente sconfortante perché restituisce lo sgomento di chi è abituato a considerare la montagna come un punto di riferimento, una certezza inamovibile, e si trova invece a vederla sgretolarsi di colpo”.

Poco prima delle 14 di domenica 3 luglio, un enorme blocco di ghiaccio si è staccato dal ghiacciaio della Marmolada, cadendo verso valle e travolgendo decine di alpinisti che si trovavano lungo il percorso. Il seracco era alto 80 metri, largo 200 e profondo 60 e, stando a quanto dichiarato dal presidente della provincia di Trento, Maurizio Fugatti, è sceso dalla montagna a 300 chilometri orari per circa 500 metri. Nella zona, la temperatura era di 10 gradi, completamente fuori norma, mentre lo zero termico era collocato a 4.100 metri (oltre i 3.343 della Marmolada). Al momento si contano sette morti, otto feriti e 13 dispersi.

Ma come è potuto accadere?

“Le temperature altissime degli ultimi tempi hanno fatto sì che un crepaccio coperto dal ghiaccio si riempisse d'acqua, spiega Carlo Barbante, direttore dell'Istituto di Scienze Polari del CNR e professore Ordinario dell'Università Ca' Foscari Venezia. “In altre parole, la sua ‘pancia’ si è riempita d'acqua e ha lubrificato la superficie tra il ghiacciaio e la roccia in primis. Poi, a seguito di questo enorme peso creato dalla massa d'acqua, il crepaccio ha di fatto ceduto ed è andato a valle per 1200 metri di dislivello”.

Quanto accaduto, riferisce Arpa Veneto, “riporta l'attenzione sugli effetti del riscaldamento globale, in particolare su quelli che interessano con evidenza i ghiacciai dolomitici”. Nella zona di Punta Rocca, nei mesi di maggio e giugno (quando si attivano i processi di fusione del ghiacciaio) sono state registrate temperature medie giornaliere superiori alla media storica di 3,2°C nei due mesi. La seconda decade di maggio (+4,8°C) e giugno (+5,4°C) sono state le più calde. Per ben 7 volte sono stati superati i 10°C, con punte massime di 13,1°C il 20 giugno 2022. Sebbene non sia la temperatura più alta mai raggiunta, è l’intero periodo a risultare più caldo anche rispetto al 2003, anno considerato da tutti record per le temperature estive.

​​Ma più che le temperature registrate a livello giornaliero, a incidere è stata la persistenza di condizioni sfavorevoli che si stanno verificando ormai da anni, conclude Arpa Veneto.

“È stato un evento eccezionale che si è innestato in una crisi climatica in atto. Già a fine maggio c'è stato un episodio simile, un crollo legato alle temperature molto alte”, spiega ancora Barbante.

Ma considerare quello di Punta Rocca come un evento eccezionale è pericoloso, oltre che fuorviante, scrive ancora Deotto: “la tragedia di domenica si colloca in un periodo di diffuse anomalie climatiche: l’Italia sta attraversando una crisi idrica senza precedenti, fiumi e laghi sono al loro minimo storico, il cuneo salino ha risalito il Po per 30 km rovinando i raccolti, il tutto mentre l’ennesima ondata di caldo tiene in ostaggio la Penisola”.

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“Il seracco sulla Marmolada e la siccità di portata secolare che avvolge l'Italia sono strettamente collegati - in fondo sono la stessa notizia”, commenta in un post su Facebook Giorgio Vacchiano, professore associato di Gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano. “La scomparsa del ghiacciaio della Marmolada, graduale o improvvisa, è un'immagine fedele di come agisce la crisi climatica. È un processo che accelera da solo, un 'tipping point': il ghiaccio che fonde scopre le rocce scure, che attirano più calore rispetto alla superficie gelata di colore bianco. Contemporaneamente, l'acqua di fusione si accumula sul fondo del ghiacciaio, scorre tra ghiaccio e roccia e lubrifica la massa glaciale, che scorre così ancora più velocemente. Avviene in Groenlandia, in Himalaya, e ora sulle Alpi. La stessa cosa avviene, a scala più ampia, in vari punti della terra: la crisi climatica innesca  circoli viziosi, fenomeni che si autoalimentano e che rischiano di scappare di mano. Il rallentamento della corrente del golfo, la savanizzazione dell'Amazzonia, lo scioglimento del permafrost: processi che accelerano all'improvviso e non si fermano facilmente, e che sarebbe meglio non innescare”.

Secondo un modello creato nel 2020 dal team di ricercatori dell’International Centre for Theoretical Physics (ICTP) di Trieste, tutti i ghiacciai alpini continueranno a diminuire e la maggior parte rischia di scomparire completamente entro la fine del secolo se non si abbatteranno le emissioni di gas serra nell'atmosfera.  

“I risultati di questo studio indicano l'inevitabile destino di scomparsa dei ghiacciai alpini, per tutti i vari scenari di aumento dei gas serra nell'atmosfera esaminati, anche per quelli più ottimistici”, spiega Filippo Giorgi, uno degli autori della ricerca pubblicata su Climate Dynamics. “Nel caso del ‘business as usual’, lo scenario in cui tutto rimane invariato e non si prendono misure per cambiare la situazione, le previsioni indicano che la scomparsa di quasi tutti i ghiacciai alpini è certa”.

La scomparsa dei ghiacciai “avrebbe impatti enormi sugli ecosistemi alpini e causerebbe un massiccio calo della disponibilità di risorse idriche per le attività umane, soprattutto in estate”, osservava all’epoca Giorgio. “L'ambiente alpino è uno dei più importanti in Europa, sia dal punto di vista degli ecosistemi montani che da quello dell'economia (...) Questo dovrebbe quindi rappresentare un grande campanello d'allarme per l'Europa in generale e per l'Italia in particolare”. 

Che fare, dunque? “C’è solo da adattarsi a una nuova situazione – avverte Renato Colucci, glaciologo dell’Istituto di Scienze Polari del CNR – riconoscerne i rischi e le nuove pericolosità e quindi agire di conseguenza, se invece avessimo voluto risolvere o almeno non arrivare a questo punto avremmo dovuto iniziare 30 anni fa con le politiche di conversione energetica verso le rinnovabili e magari adesso non ci troveremmo in una situazione che anno dopo anno diventa sempre più grave. La fusione glaciale alpina è solo un aspetto della medaglia, ma il riscaldamento globale ne porta con sé tanti altri”.

E pensare che l’Italia un piano di adattamento lo aveva, realizzato nel 2017 e in attesa di approvazione dal 2018, osserva il giornalista Ferdinando Cotugno su Twitter. Nel frattempo, sono passati cinque anni che “hanno cambiato le proporzioni, l'impatto e la conoscenza dell'emergenza clima in Italia”. E in mezzo “ci sono state la tempesta Vaia, estati record di incendi nel 2018 e nel 2021, siccità e agricoltura in ginocchio quest'anno. Tecnici e scienziati hanno lavorato, i politici no, da cinque anni manca un decreto che ha fatto invecchiare il lavoro dei primi e ci ha lasciato senza uno strumento. Si chiama sottovalutazione, attraversa tre governi, uno di destra, uno di sinistra e uno di centro tecnocratico”, commenta Cotugno.

“L’Italia ha iniziato un percorso nazionale di adattamento nel 2012. Io ero il coordinatore e il principale autore dei rapporti che hanno poi costruito, in modo partecipato, la Strategia Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici entrata in vigore nel giugno 2015. In particolare, con un centinaio di scienziati abbiamo prodotto tre rapporti, uno tecnico-scientifico sullo stato dell’arte, uno tecnico-giuridico con un’analisi della Strategia Europea di Adattamento, delle strategie nazionali già adottate in Europa e dell’acquis communautaire e sua attuazione in Italia, infine un documento strategico”, raccontava a Scienzainrete poco più di un anno fa Sergio Castellari, climatologo all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), coordinatore e coautore, tra le altre cose, di vari rapporti per l’Agenzia Europea per l’Ambiente e il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC).

“Avevamo definito 18 settori e alcuni casi speciali (Area alpina e appenninica, Distretto idrografico del fiume Po) dove si evidenziavano le azioni possibili di adattamento a tre livelli temporali: al 2020, al 2030 e al 2050”, prosegue Castellari. “La strategia italiana è stata consegnata nel 2014 all’allora Ministero dell’Ambiente, approvata dalla Conferenza unificata Stato-Regioni, e adottata nel 2015. Per il 2020 avevamo evidenziato le azioni dette no regret, tra cui le azioni che permettono di conseguire benefici elevati e costi relativamente bassi indipendentemente dall’entità dei cambiamenti climatici, come l’incremento del verde urbano, l’arresto del consumo di suolo e il divieto di costruire nelle zone a rischio idrogeologico. La strategia suggeriva inoltre l'attuazione di almeno una parte di essa, con alcune azioni prioritarie, tramite appunto un piano nazionale per l’adattamento”.

Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), elaborato con un progetto finanziato dal Ministero dell'Ambiente e coordinato dal CMCC, è in attesa di approvazione della Valutazione Ambientale Strategica dal 2018. “Il piano non include attualmente una pianificazione finanziaria e una possibile allocazione dei fondi, e questo, secondo quanto detto prima, non lo rende un vero e proprio piano d’azione”, osserva Castellari. 

“Questo è un dramma che certamente ha delle imprevedibilità, ma certamente dipende dal deterioramento dell'ambiente e dalla situazione climatica. Il Governo deve riflettere su quanto accaduto e prendere provvedimenti perché quanto accaduto abbia una bassissima probabilità di succedere e anzi venga evitato”, ha dichiarato il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, giunto sulla Marmolada. "Bisogna prendere dei provvedimenti affinché quanto accaduto sulla Marmolada non accada più in Italia”.

Staremo a vedere in cosa si tradurranno queste affermazioni considerato che l’Italia è tra i paesi europei che stanno spingendo per il ricorso al carbone e ai combustibili fossili per ovviare alle forniture della Russia.

Stati Uniti, la decisione della Corte Suprema renderà ancora più difficile la lotta contro il riscaldamento globale

Nella causa West Virginia contro l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (E.P.A.), la Corte Suprema ha emesso una delle sentenze ambientali più importanti di sempre che potrebbe compromettere (e quanto meno limiterà) la lotta contro il riscaldamento globale da parte degli Stati Uniti (e probabilmente di tutto il pianeta). La decisione della Corte Suprema è il culmine di un’azione iniziata cinque decenni fa per impedire che il governo federale minacciasse lo status quo delle imprese, ha commentato il noto giornalista e ambientalista statunitense Bill McKibben sul New Yorker. La sentenza non elimina l'autorità dell'E.P.A. di regolare le emissioni di gas serra delle centrali elettriche, ma la limita fortemente, spiega la giornalista del New York Times Coral Davenport.

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Fonte: Valigia Blu

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Articolo tratto interamente da Valigia Blu


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