Comunicato da Non una di meno - Palermo
A Palermo, la serata spensierata di una ragazza in giro per le strade e i locali della città viene brutalmente interrotta e sporcata da un gruppo di 7 giovani uomini che abusano di lei e riprendono il momento dello stupro con il cellulare. Questo il fatto nella sua asciutta verità liberato da tutti gli orpelli di una narrazione tossica veicolata dai mass media e diretta espressione di un sistema patriarcale e machista.
È bastato un semplice passaparola per far convergere centinaia di persone alla Cala di Palermo ieri sera. Era importante vedersi, riconoscersi fra alleati e alleate contro un sistema violento e patriarcale, discutere l’accaduto e farsi sentire! Da lì la decisione di muoversi rumorosamente in una passeggiata per le strade della città, nei luoghi in cui si è consumata la violenza, per potere esprimere il dissenso e la rabbia per quanto accaduto, per far giungere una voce solidale alla giovane donna stuprata e a tutte coloro subiscono quotidianamente violenza di genere.
“Lo stupratore non è malato, è figlio sano del patriarcato”, “Il sesso senza consenso è stupro”, “Sorella non sei sola!”, sono i cori urlati e gli striscioni appesi nel cuore della vucciria e al foro italico.
Quanto accaduto e la sua narrazione rivelano elementi gravissimi e importanti da sottolineare: per il sistema attuale e la sua società noi siamo prede da catturare e sbranare per assecondare lo sguardo sessuale maschilista, una mania del possesso e della sottomissione. Siamo oggetti da afferrare e trofei da esporre a riprova della virilità. Quando veniamo schiaffeggiate, stuprate, uccise i temi e le domande che si pongono per interpretare l’accaduto si riducono a quale azione noi siamo colpevoli di aver compiuto che ha innescato quella conseguente e animosa reazione violenta, quanto abbiamo bevuto o che vestiti indossavamo o in che parte della città ci muovevamo perché, insomma, ce la siamo proprio cercata. Noi abbiamo la colpa, l’uomo è caduto nella nostra rete. E poi, ancora, questo fatto rileva la totale normalizzazione della violenza e dell’oggettificazione dei nostri corpi: è normale che al bancone di un pub si dica di voler fare bere una ragazza per poter fare di lei ciò che si vuole, come è normale essere palpeggiate o avvicinate senza il nostro permesso. E poi, se invece di sette fosse stato uno lo stupratore? E se invece di stupro fosse stato un palpeggiamento? Ci sarebbe stato tutto questo interesse dei media e della governance? È la spettacolarizzazione della violenza che interessa o l’atto di violenza di genere in sé e per sè? Perché tutti i giorni la subiamo e passa sempre sotto silenzio totalmente sussunta nella quotidianità. Quando la stampa e l’opinione pubblica si interessano a un fatto ecco che la ricostruzione morbosa dell’accaduto si traduce in una vera e propria pornografia del dolore, la ricerca meticolosa dei particolari atta a far emergere lo stato di poca lucidità della vittima per assolvere velatamente il carnefice, l’utilizzo di termini come “branco”. Lo chiamano branco, li chiamano mostri, urlano all'ergastolo: questa retorica e questo linguaggio non fanno altro in realtà che deresponsabilizzare e individualizzare soltanto sui sette ragazzi la cultura dello stupro che in realtà ci circonda tutti i giorni. Non erano mostri, né cani, né un branco in movimento: ragazzi, come i tanti che tutti i giorni dalle chat su wa al catcalling, dallo stalking ai mille processi di virilità tossica, sono figli del patriarcato di cui riproducono la violenza. E quando non si riconoscono queste come espressioni di violenza di genere si è complici.
Ciò che è accaduto è diretto riflesso di un sistema che ci considera subalterne e solo e soltanto in relazione al nostro corpo. Ciò che è accaduto non è un caso isolato. Ciò che è accaduto non può essere raccontato seguendo la logica della spettacolarizzazione, dell’assoluzione del carnefice, della colpevolizzazione della vittima, della straordinarietà del fatto. Ciò che è accaduto, infine, non può trovare risposta risolutiva in una militarizzazione dello spazio pubblico e nella giustizia dei tribunali. Precedenti esempi, di fatto, ci dimostrano che denunciare spesso non soltanto non porta a nessun esito ma conduce anche a subire ulteriori violenze, come quella della narrazione tossica mediatica, che pur di acchiappare qualche like in più sbatte in prima pagina il racconto dettagliato della violenza subita; di un tribunale che mette sotto processo la vittima stessa, che deve dimostrare la sua credibilità: di un sistema il cui carcere non fa altro che riprodurre o produrre nuove violenze. Se questo stupro di massa è accaduto, se tutti i giorni subiamo violenza di genere dentro e fuori le nostre case, è perché l’intero sistema è costruito sulla base del patriarcato e perché le nostre città non hanno abbastanza luoghi dove il transfemminismo sia riconosciuto e possa essere praticato.
Abbiamo bisogno di città sicure in ogni angolo e anfratto in cui non temere di subire discriminazione e violenza sulla base del genere, in cui potere vivere come meglio crediamo e desideriamo. Non abbiamo più molto tempo, la situazione sta precipitando e dobbiamo muoverci in fretta e in maniera capillare, con forza e audacia per costruire una rete dal basso che componga pezzo dopo pezzo una società, una città in cui non rischiamo la pelle.
Tutto il nostro amore e tutta la nostra rabbia vuole abbracciare e supportare la nostra sorella; saremo sempre pronte e con le lenti giuste a osservare la realtà, a vigilare che nessuna espressione di violenza di genere venga perpetrata nell'indifferenza, a distruggere pezzo dopo pezzo la cultura patriarcale.
Sorella non sei sola
Mai abbassare la guardia contro questi volgari delinquenti. Sempre dalla parte delle donne e in loro strenua difesa.
RispondiElimina👍
EliminaRicordo quando sono venuto a conoscenza della notizia, sono rabbrividito, sono rimasto sconcertato, ed ho provato una rabbia furiosa un vero e proprio odio verso coloro che le hanno fatto tutto questo
RispondiEliminaUn vero orrore.
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