giovedì 16 settembre 2021

Qui rido io, un film incentrato sulla figura del celebre attore e commediografo Eduardo Scarpetta



Articolo da Fata Morgana Web

C’è un incontro chiave nel film. Eduardo Scarpetta, nume del teatro popolare napoletano a cavallo tra Otto e Novecento, è in grande difficoltà perché mandato a processo da D’Annunzio che lo accusa di aver contraffatto la sua tragedia La figlia di Iorio. Per difendersi dall’accusa, sostenuta anche da un manipolo di intellettuali e artisti napoletani difensori del “teatro d’arte”, che usano di fatto la causa per invidie e rivalità, Scarpetta va a chiedere aiuto a Benedetto Croce. Il filosofo ed intellettuale gli risponde sostenendo che la linea da tenere al processo è quella di rivendicare la grande tradizione comica della parodia, distinta dal carattere aulico della tragedia. E che per Il figlio di Iorio di Scarpetta si può al massimo parlare di una brutta parodia ma non di contraffazione e plagio.

La polarità costruita da Croce tra la dimensione del tragico, che in D’Annunzio si intreccia con l’ancestrale e il mitologico, e quella del comico-popolare, permette di capire molte cose di quello che il film ci dice sulle possibili declinazioni dell’intreccio tra teatro e vita. Che è il tema dei temi del teatro, e del cinema che usa il teatro quando vuole parlare proprio di tale intreccio tra scena e vita, personaggi e persone.

Qui rido io esplicita fin dall’inizio tale legame con la messa in scena di Miseria e nobiltà, grande successo di Scarpetta e della maschera di Felice Sciosciammocca. Qui vediamo nell’incrocio rapido di punti di vista, che coinvolgono il dietro le quinte, la scena e la platea, il costituirsi attraverso la regia di un’unità di spazio che rende inidentificabile il confine tra i tre ambienti e le tre prassi (operazione che riprende le recenti regie d’opera televisive di Martone). E questa indiscernibilità riguarda sia la scena sia la vita. La miseria e il prezzo da pagare per riscattarla, anche inventando o negando paternità, passano dalla scena alla vita e viceversa. Sopravvivere può richiedere molto impegno, che la commedia mostra nelle forme del travestimento e delle piroette che il soggetto è costretto a compiere, che implicano sempre una presa di distanza dal carattere doloroso dell’esperienza.

Prima di congedarlo, vedendo Scarpetta sofferente anche per quello che ritiene il tradimento dei giovani intellettuali napoletani nei suoi confronti, Croce aggiunge che uno come lui che sa far ridere di tutto dovrebbe anche saper ridere di ciò che lo riguarda ora da più vicino: il passare del tempo. Cioè dovrebbe essere in grado di prendere le distanze dalle proprie ferite e tener conto che la condizione umana contempla necessariamente avvicendamenti e tramonti. Altrimenti il suo destino rischia di avere una conclusione tragica. Così dicendo Croce sottolinea lo scarto tra la capacità del capocomico di trovare tale distanza in scena e riderne e la sua incapacità nella vita. C’è dunque un modo comico di raccontare la vita e un modo tragico, e questo era chiaro fin dagli antichi greci. La differenza a volte è sottile e la conversione rapida.

Raccontare comicamente la miseria o i figli di padre ignoto non è un’acquisizione pacifica, ed è la grande invenzione del teatro comico popolare italiano, in cui la tradizione napoletana svolge un ruolo insostituibile. Questo racconto contrasta con la grande invenzione della modernità occidentale avvenuta con la Rivoluzione francese (a cui Martone ha dedicato di recente uno spettacolo significativo come Danton), e che ha visto l’emergere sulla scena pubblica della questione sociale, filtrata da uno sguardo empatico e patetico che solo il sangue versato riesce a placare. Le rivoluzioni sono sempre tragiche e la commedia non è mai rivoluzionaria. Ma forse è qualcosa di più: è il racconto di come l’umano si possa liberare dalla pressione del bisogno mettendola in scena nel teatro e nella vita.

Saper ridere della fame come condizione sociale diffusa e generalizzata porta da un lato all’indebolimento dello spirito rivoluzionario, ma dall’altro concede all’umanità un dono prezioso: quello di saper creare una distanza rispetto alla propria esperienza, di non coincidervi del tutto. Saper ridere sana perché trasforma le tragedie come racconto della necessità in commedie come racconto della libertà. Quando non si può ridere significa che tale libertà non ci è concessa e siamo sotto il giogo di una necessità tragica. In questo senso l’“arte di arrangiarsi” è la formula anti-rivoluzionaria con cui la vita preserva se stessa sia dalla morte per fame che dal rischio di uscirne con lo spargimento di sangue.

La commedia è sempre indipendenza dal sangue e dai suoi legami. Per cui i figli di padre ignoto non danno vita alla serie infinta dei “miserabili” e dei “reietti” che molta letteratura ottocentesca ci ha raccontato, ma si trasformano nei “monelli” che attraverso finzioni e mascheramenti si inventano modi per sopravvivere, come il “Vincenzo m’è padre a me” di Miseria e nobiltà. I figli non riconosciuti possono avere anche un’opportunità in più, come gli orfani nelle favole, quella di scegliere il proprio padre, l’orizzonte simbolico all’interno del quale creare il proprio futuro.

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Articolo tratto interamente da Fata Morgana Web


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