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mercoledì 14 maggio 2025

Il classismo dell’Università italiana



Articolo da Senza Tregua

L’università italiana è un’università di classe. Questa affermazione non rappresenta uno slogan vuoto, ma raffigura la sua natura e il risultato che emerge dal suo sviluppo storico. Strutturata in funzione degli interessi della classe dominante, viene costantemente piegata alle necessità produttive dei padroni come fucina di figure professionali, ricerche e brevetti richiesti. Dentro agli atenei gli unici interessi che contano sono quelli dei privati, delle multinazionali e delle banche, puntualmente rappresentati nei CdA e in prima fila per influenzare gli indirizzi delle università a proprio piacimento. Allo stesso tempo il processo di definanziamento e privatizzazione degli atenei ha favorito l’emergere di un altro carattere dell’università di classe: le barriere economiche alla sua accessibilità e l’esclusione sistematica degli studenti appartenenti alle classi popolari.

Dagli ultimi decenni del ventesimo secolo, coadiuvato dall’arretramento dell’organizzazione del movimento operaio e del movimento studentesco, assistiamo al processo di privatizzazione dell’università italiana e all’ingresso sempre più massiccio dei privati all’interno delle università, strumenti attraverso cui viene rafforzato il legame sempre più nitido tra il sistema di istruzione e gli interessi dei padroni.

In cosa consiste questo processo? Si tratta di un progressivo disimpegno finanziario dello Stato nei confronti dell’università italiana, sempre più dipendente dai finanziamenti privati: sia quelli investiti dalle aziende, sia i proventi derivanti dalla tassazione degli iscritti. I costi delle università, infatti, vengono scaricati sulle famiglie degli studenti per un finanziamento pari al 20% del totale annuale, permettendo quella già citata progressiva esclusione delle fasce popolari dal grado di istruzione.

Come si è giunto a questo livello di privatizzazione? Tramite il grimaldello dell’autonomia universitaria. Introdotto a partire dal 1989, questo modello è stato progressivamente potenziato riforma dopo riforma, in particolare con la Riforma Berlinguer del 1999, che ha rappresentato il primo vero attacco significativo all’istruzione pubblica, aprendo la strada all’attuale concetto di aziendalizzazione dell’università.

Il principale metodo di finanziamento pubblico delle università italiane consiste nel Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), progressivamente calato nel corso degli anni. Ad oggi l’FFO occupa il 65% (circa) del finanziamento alle università, il resto è coperto dai finanziamenti privati. A sua volta l’FFO è suddiviso nella quota premiale e nella quota storica; quest’ultima permetteva la quota base di finanziamento ad ogni singola università. Nel corso del tempo la quota storica si è ridotta a favore della premiale, che risponde a dei criteri ben precisi, come la qualità della ricerca. Questa ulteriore suddivisione causa uno svantaggio per gli atenei più piccoli, andando sistematicamente ad avvantaggiare quelli più grandi, con maggiori collaborazioni e che già ricevono investimenti più cospicui.

Slegando gli atenei dal finanziamento statale, questi diventano devi veri e propri enti autonomi facilmente gestibili dagli interessi dei padroni sui territori. Su questo solco, infatti, nascono i “poli di eccellenza” presentatici dalla riforma Gelmini: le facoltà utili ai settori produttivi del territorio sono alla mercé delle industrie locali, che traggono da questo assetto un duplice vantaggio. Da una parte, lasciando voce in capitolo sulla didattica e sui progetti di ricerca, i privati sono liberi di piegare ai propri interessi i piani di studio e i progetti di ricerca  delle facoltà risparmiando sui costi di formazione e dall’altro si vedono garantito un continuo ricambio di mano d’opera a disposizione facilmente rimpiazzabile da nuovi laureati nel caso ci dovessero essere cambiamento dal punto di vista produttivo.

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Fonte: Senza Tregua

Autore: 
redazione Senza Tregua

Licenza: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia.

Articolo tratto interamente da Senza Tregua


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