venerdì 5 aprile 2024

30 anni dalla morte di Kurt Cobain

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Articolo da Il Bo Live, il giornale dell'Università di Padova

"Quanto ti piace fare il padre di famiglia?", chiede il giornalista. "È più importante di qualsiasi altra cosa al mondo. La mia musica è quello che faccio; la mia famiglia è quello che sono. Quando tutti avranno dimenticato i Nirvana, e io sarò in un tour nostalgico ad aprire per i Temptations e i Four Tops, Frances sarà ancora mia figlia e Courtney sarà ancora mia moglie. Questo per me conta più di qualsiasi altra cosa”. L’ultima intervista, rilasciata da Kurt Cobain a Chuck Crisafulli, è dell'11 febbraio 1994 e si chiude così. Circa due mesi più tardi il leader dei Nirvana verrà trovato senza vita nella sua villa di Seattle: aveva ventisette anni. Ne sono passati trenta, un tempo più lungo di quello vissuto. Qualche giorno fa, leggendo un articolo scritto da Francesca Coin per Robinson, ho ritrovato un pensiero di Mark Fisher e ho provato un piccolo dolore. L'autore di Realismo capitalista descrive una generazione, la mia, quella dei nati tra la metà degli anni Sessanta e il 1980, con un desiderio di ribellione e una lieve ma perpetua malinconia, per cui struggersi e al tempo stesso di cui compiacersi. Riferendosi al leader dei Nirvana, Fisher scrive: "Sembrava aver dato voce allo sconforto della generazione che era venuta dopo la storia, ogni cui mossa era stata anticipata, tracciata, comprata e venduta prima ancora che accadesse". La generazione venuta dopo la storia, che voleva definire se stessa e aveva bisogno di una voce. Ecco perché la morte di Cobain ci è rimasta addosso come una cicatrice (è nascosta, ma c'è) ed ecco perché la sua leggenda ha continuato a essere alimentata nel tempo, attraversando, per sempre ma sommessamente, le nostre esistenze. Il mito e la sua fine in qualche modo ci appartengono e ci permettono di rintracciare quello che eravamo o che volevamo essere.

La generazione cresciuta a pane e Mtv ricorda bene l'Unplugged dei Nirvana a New York, il concerto acustico del 1993 poi diventato un album: per molti di noi fu (e resta) una performance indimenticabile con un finale, a occhi chiusi, affidato a Where did you sleep last night del bluesman Lead Belly, di cui Cobain voleva comprare la chitarra e che durante il live definì il suo artista preferito. Ritroviamo tutto: l'atmosfera, il palco allestito come un salotto, la voce rotta, il peso sulle spalle, l'immancabile cardigan, l'espressione triste e un accenno di sorriso al termine dello show. Personalmente, ricordo di aver indagato con cura gli sguardi degli spettatori presenti, cercando tracce di meraviglia e improvvise epifanie: osservavo le reazioni, l'oscillazione delle teste, li invidiavo, immaginavo di essere tra loro. Con Cobain, oltre a Krist Novoselic e Dave Grohl, c'erano la violoncellista Lori Goldston e Pat Smear, già chitarrista dei Germs. Cosa potevamo volere di più? Quella sera, per la scaletta, Mtv avrebbe voluto far suonare ai Nirvana le hit grunge dei Pearl Jam, Cobain scelse di fare tre canzoni dei Meat Puppets, sul palco con loro.

Le vicende relative a quello show raccontano una storia che non abbiamo visto, un dietro le quinte raccontato bene dal giornalista e scrittore Charles R. Cross, autore nel 2001 di Più pesante del cielo, biografia completa di Kurt Cobain, ora riproposta in una nuova edizione e pubblicata in Italia da Il Saggiatore: "Anche se aveva accettato di fare la trasmissione - scrive -, Kurt non voleva che il suo Unplugged somigliasse agli altri della serie. Mtv invece aveva intenzioni opposte, così le due parti iniziarono a scaldarsi". Un generale stato di malessere accompagnò l'intero live: "La sua tensione si era propagata al pubblico, che sembrava sulle sue, rigido e in attesa dell’imbeccata per potersi rilassare del tutto. Non arrivò mai, ma quella tensione, come nella finale di un campionato, servì a rendere ancor più memorabile il concerto".

Un'esplosiva popolarità, la trasformazione in icona, suo malgrado, i traumi familiari mai risolti (dopo il divorzio dei genitori, vissuto malissimo, era stato cacciato di casa dalla madre e con il padre non parlò per anni), le dipendenze, le crepe dell'anima, un pubblico sempre più ampio ed eterogeneo che non sempre sentiva suo: tutto questo conviveva in Cobain e rappresentava un problema per lui, determinando un tormento sordo, una inquietudine persistente. Del pubblico parlava nelle interviste, una selezione delle quali ora compone il libro Territorial Pissings L'ultima intervista e altre conversazioni (minimum fax), da cui è tratto questo passaggio: "All’inizio, quando abbiamo iniziato ad avere successo, io ero molto critico nei confronti del tipo di pubblico che veniva a sentirci. Pretendevo che fossero conformi a una specie di ethos del punk. Mi infastidiva il fatto che attirassimo proprio quelle persone contro le quali la mia musica voleva ribellarsi. Ma poi sono diventato più bravo ad accettare le persone per quello che sono. A prescindere da chi siano quelle persone prima di venire al concerto, io ho a disposizione un paio d’ore per cercare di cambiare il loro modo di vedere il mondo. Non è che cerco di imporgli cosa pensare, però ho a disposizione una piattaforma dalla quale esprimere le mie idee. Quantomeno, ho sempre l’ultima parola".


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Fonte: Il Bo Live, il giornale dell'Università di Padova

Autore: 
Francesca Boccaletto

Licenza: Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.


Articolo tratto interamente da 
Il Bo Live, il giornale dell'Università di Padova

Photo credit Adam Jones from Kelowna, BC, Canada, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons


2 commenti:

  1. Dipendenze tossiche, alcool, eroina, suicidio.. chi non gli è stato sufficientemente vicino? Il genio può uccidere? Meglio fare l'operaio allora..

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    1. Anche lui faceva parte, della cosiddetta maledizione del club dei 27.

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