mercoledì 17 luglio 2019

Un mondo fatto di muri


Articolo da Voci Globali

Un’osservazione attenta della geografia del mondo rivela un andamento nettamente contrario a ciò che ci si aspetterebbe dall’era della globalizzazione. L’idea di non avere più confini e di essere collegati e in comunicazione senza barriere si scontra oggi più che mai con la costruzione fisica di muri e recinzioni.

Si scopre, allora, che molti Stati si sono chiusi volontariamente e materialmente per evitare il contatto con i Paesi confinanti. E dall’Africa all’Asia fino all’Europa e alle Americhe, muri in cemento o imponenti reti sorvegliate spuntano in nome della protezione e della sicurezza dei cittadini. Con il risultato certo di aumentare la frustrazione e di allontanare l’esercizio dei diritti. E di causare morti. L’ultima immagine drammatica è quella di padre e figlia morti annegati nel fiume Rio Grande mentre cercavano di attraversare il confine con gli Stati Uniti evitando il muro. La barriera americana nel 2018 ha causato circa 300 morti.

Non ci sono soltanto i muri più noti come quello di separazione tra Usa e Messico o la barriera muraria che divide i territori israeliani da quelli palestinesi in Cisgiordania, o ancora la Linea verde dell’Onu tra Cipro Nord e Cipro Sud.


L’elenco è più lungo e abbraccia tutti i continenti. Se da una parte sono ancora in piedi barriere nate per problemi antichi e irrisolti – come i pezzi di muro sorvegliato a Belfast o quello tra Marocco e Sahara nella complessa vicenda dell’indipendenza dei Saharawi – dall’altra fili spinati sorgono in risposta ad esigenze dei nostri tempi.

In Africa, per esempio, Botswana e Zimbabwe sono separati da una rete metallica elettrificata dal 2003. La barriera, che si estende per circa 500 km, è stata voluta dai governanti del Botswana preoccupati per la diffusione dell’afta epizootica, malattia che aveva colpito le mandrie di bestiame nel Paese limitrofo. Evitare qualsiasi contagio con i propri animali, quindi, era diventato prioritario per lo Stato africano, la cui economia si sostiene molto con l’esportazione di carne di manzo.

Il Botswana, piccolo e dall’economia tra le più sviluppate del continente grazie soprattutto al traino del mercato dei diamanti, ha così cercato di salvaguardarsi anche dall’ondata di migranti provenienti dallo Zimbabwe, povero e costantemente instabile. Sebbene le dichiarazioni ufficiali abbiano sempre cercato di allontanare questa spiegazione, i vicini si sono sentiti “accerchiati” da un muro che, di fatto, andava a limitare la loro libertà di passaggio. Dal 2000, inoltre, lo Zimbabwe era piombato in una crisi economica causata soprattutto dalla riforma agraria voluta dall’ex presidente Robert Mugabe. Il flusso migratorio verso il piccolo Paese vicino più ricco, quindi, fu inevitabile.

La barriera venne subito letta come una negazione dell’ingresso sul proprio territorio di persone, più che di bestiame. Come spesso accade, la costruzione di questa rete elettrificata ha innescato una serie di disagi e di risentimenti nella popolazione dello Zimbabwe. Alcuni villaggi si sono ritrovati divisi in due e impossibilitati a raggiungere fonti d’acqua e territori prima accessibili per le attività di sostentamento come caccia e allevamento. Gli attriti tra gli abitanti delle terre isolate e la polizia di controllo del Botswana sono aumentati e continuano, nonostante le autorità di Gaborone minimizzino affermando che molti tratti del confine restano liberi.

Risale agli inizi degli anni ‘90 la progettazione della barriera fortificata con muri e fili spinati tra India e Bangladesh. Il muro difensivo si estende su quasi tutta la linea di confine tra i due Paesi, a testimonianza della storia complessa di questa zona asiatica. Con lo scopo di proteggere il proprio territorio da infiltrazioni terroristiche, immigrazione clandestina e traffici illegali di bestiame e altre merci, le autorità indiane hanno quindi sigillato un intero confine.


Non sono mancati epiloghi drammatici come morti ed uccisioni lungo il recinto. Un confine, questo, reso ancora più complesso dalla presenza di centinaia di enclavi indiane e bangladesi che nel tempo hanno reso ancora più difficile la convivenza tra i due Paesi limitrofi, spingendoli anche ad importanti sforzi per accordi.

L’Europa è il continente che si è mostrato più attivo negli ultimi anni in questa pratica della difesa materiale delle proprie frontiere. Ungheria, Serbia, Macedonia, Grecia, Austria, Slovenia non hanno esitato a progettare e a realizzare barriere fortificate e sorvegliate per bloccare i movimenti dei migranti. Sono già due anni che l’ingresso europeo orientale è blindato, nel confine tra Bulgaria e Turchia. 200 chilometri di filo spinato con telecamere ad infrarossi e schieramenti armati bloccano i tentativi di ingresso in territorio bulgaro.

E se l’area balcanica si sta sempre più chiudendo in una rete fitta di recinzioni metalliche, il cuore dell’Europa democratica non dà sempre esempi di apertura. Il “Great Wall” è il muro di Calais, alto quattro metri e lungo un chilometro. La barriera prolunga la recinzione nei pressi del porto e vuole impedire ai migranti di attraversare la Manica a bordo di camion in passaggio nella tangenziale. Finanziato dal Regno Unito, questo muro, costruito nel 2016, doveva rispondere al degrado della “Giungla”, ormai smantellata.

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Fonte: Voci Globali

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Articolo tratto interamente da Voci Globali



4 commenti:

  1. Sai che non sapevo di tutti questi muri?
    Grazie e rileggo. Ciao Vincenzo.

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  2. Caro Vincenzo, non mi sento di fare commenti, il mondo si sta sfasciando.
    Ciao e buona serata con un forte abbraccio e un sorriso:-)
    Tomaso

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