mercoledì 23 agosto 2017

Lavoro come merce



Articolo da Eddyburg.it 


Nei giorni scorsi è stata ricordata la tragedia avvenuta nella miniera belga di carbone di Marcinelle l’8 agosto 1956, quando i migranti eravamo noi. E’ bene che qualcuno racconti e ricordi delle storie di lavoro e di incidenti nell’ambiente di lavoro in questo tempo in cui sembrano cancellate dal vocabolario l’“odiata” espressione “classe operaia”, che sapeva tanto di comunismo, e la stessa parola “operaio” viene usata il meno possibile, come se gli operai fossero scomparsi in questo mondo così moderno.

La storia della catastrofe di Marcinelle - fu proposta in una vecchia miniserie RAI del 2003, Marcinelle, qualche volta trasmessa da quale televisione privata - è un concentrato di eventi; l’incidente avvenne in una miniera dell’Europa appena uscita dalla seconda guerra mondiale, nella quale il grande flusso del petrolio e del gas naturale era appena all’inizio e il carbone era la principale fonte di energia, così come lo era per tutto il mondo. A dire la verità, con tutti i progressi che ci sono stati, il carbone è ancora oggi il principale combustibile fossile; nel mondo milioni di minatori estraggono, ogni anno, circa settemila milioni di tonnellate di carbone e lignite dalle viscere della terra, risorse nascoste a centinaia e migliaia di metri di profondità. Ogni giorno milioni di persone scendono dalla superficie del suolo nelle strette gallerie sotterranee in cui il nero carbone viene staccato, pezzo per pezzo, dalle pareti della miniera, viene caricato su nastri trasportatori e carrelli e viene poi portato in superficie con gli ascensori.

Il carbone è un materiale fossile nero, relativamente fragile, che genera, durante la frantumazione, polveri che vengono respirate dagli operai, anche se sono muniti di maschere e filtri (agli operai italiani nel Belgio furono dati soltanto dopo l’incendio di Marcinelle) e che causano malattie polmonari dopo pochi anni di lavoro. Il più grande nemico dei minatori è il metano, il “grisou”, un gas infiammabile che è rimasto intrappolato, nel corso di migliaia di secoli, “dentro” i giacimenti sotterranei di carbone e che continua a liberarsi nell’aria delle gallerie a mano a mano che nuove superfici vengono a formarsi con la continua asportazione del carbone.



Per l’illuminazione delle gallerie oggi sono disponibili lampade elettriche, ma nel passato per molti decenni, le uniche lampade disponibili erano lampade a fiamma libera che provocavano esplosioni quando la concentrazione di metano era superiore ad una soglia di sicurezza; soltanto nel 1816, ad opera del grande chimico Humphrey Davy (1778-1829) sono state inventate le lampade di sicurezza da miniera, poi continuamente perfezionate.

Per essere respirabile l’aria delle gallerie, a centinaia di metri di profondità, deve essere continuamente ricambiata; fra cattiva ventilazione, polveri, scarsa illuminazione e fatica fisica, il lavoro dei minatori del carbone è fra quelli più usuranti e pericolosi che ci siano. Rispetto alle condizioni di lavoro delle miniere dell’Ottocento e a quelle descritte nel telefilm, peraltro girato in una vera miniera in Polonia, oggi le condizioni di sicurezza sono un poco migliorate, anche se gli incidenti continuano a verificarsi e comportano un sacrificio di migliaia di vite umane ogni anno, in Cina, Stati Uniti, India, Australia, Russia, Sud Africa, eccetera. Non bisognerebbe dimenticarlo perché l’elettricità che consente di accendere le lampadine, i televisori, le lavatrici, i frigoriferi, prodotta nelle centrali termoelettriche a carbone italiane, è “pagata” dalla fatica di qualche operaio in qualche miniera in qualche parte del mondo; c’è un “contenuto di dolore” in ogni bolletta dell’elettricità.

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Fonte: Eddyburg.it


Autore: Giorgio Nebbia 

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Articolo tratto interamente da Eddyburg.it 


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