lunedì 18 gennaio 2016

Isochimica: il silenzio della polvere

UIC-X-Roma 06-95

Articolo da Il lavoro culturale 

Recensione a “Il silenzio della polvere. Capitale, Verità e Morte in una storia meridionale di amianto”, a cura di Antonello Petrillo, Mimesis.

Il fatto sociale che si narra e si interpreta alla luce di alcune categorie sociologiche ne “Il silenzio della polvere. Capitale, Verità e Morte in una storia meridionale di amianto” (a cura di Antonello Petrillo, Mimesis-Cartografie sociali) è del tutto simile ad una qualsiasi altra micro-storia coloniale, con la differenza che qui non occorre spostarsi di latitudini e neppure tanto lontano nel tempo. Si tratta infatti, di un caso di “colonialismo sul posto”, come direbbe Balibar e come sostengono gli autori del volume. Siamo nell’Irpinia dell’immediato post-terremoto, esattamente nella provincia di Avellino, agli inizi degli anni Ottanta, quando un imprenditore, Elio Graziano, apre l’Isochimica, una fabbrica per costruire vagoni per treni ovvero uno dei più grandi giacimenti di sversamento di amianto d’Europa.

Una miriade di operai-ragazzini pensa di aver risolto l’atavica condizione del “disoccupato meridionale”, ma ancora non sa che di lì a poco alcuni sarebbero morti ed altri si sarebbero ammalati: asbestosi, fibrosi polmonari, placche e ispessimenti pleurici, mesotelioma peritoneale, mesotelioma della tunica vaginale e del testicolo, carcinoma polmonare. La “polvere bianca” che andranno a maneggiare senza alcuna protezione è amianto, un veleno di cui in quegli anni – come ricostruisce Petrillo nel suo bel saggio – si sapeva già tutto, ma non era dato parlarne. L’intreccio si genera, ma presto si biforca: da un lato l’ascesa dell’imprenditore Graziano che nel frattempo diventa, oltre che un “salvatore” dell’Irpinia, anche proprietario dell’Avellino calcio, amato e rispettato sul territorio come un podestà; dall’altro famiglie proletarie che trovano lavoro, accedono al salario, ma perdono la salute e in parecchi casi la stessa vita.

Un racconto coloniale, dicevamo, che narra di trasformazioni sociali, di modalità di gestione del territorio e della popolazione – come ci insegna Foucault – e di forme di organizzazione del lavoro “feudali e modernissime” insieme. Una ricerca precisa e minuziosa sul campo, che ci restituisce una storia e una narrazione sociologica in grado di andare al di là del descrittivismo della cronaca giudiziaria, ma anche al di là di un’idea di sociologia astratta, fuori dalla realtà dei fatti sociali. Oltre a Petrillo, che scrive uno dei saggi e cura il volume, il lavoro si snoda attraverso vari contributi che analizzano differenti piani della questione: Petrozziello scrive della bonifica, Di Costanzo scrive di territorio e popolazione, Della Cerra ricostruisce la vicenda della rappresentazione mediatica del caso, De Biase riannoda i fili della lotta operaia scattata all’indomani della presa di coscienza del disastro, D’Ascenzio tratta di relazioni industriali nel Mezzogiorno, Ferraro scrive di salute e lavoro, nodo mai risolto e che coinvolge, in assoluta tenuta conflittuale, la medicina sociale e la prospettiva dei sindacati che sull’argomento è stata particolarmente muta. L’Ilva è l’esempio paradigmatico più recente.

L’intreccio di ricerca e di restituzione è potente perché tutto basato sull’esperienza dei soggetti direttamente interessati, corpi che parlano e corpi che contano, situati in un determinato spazio e all’interno di un’altrettanta determinata rete di relazioni. Rete asimmetrica, come tutte le relazioni che scaturiscono dal Capitale. Una sorta di empirismo che stravolge la postura classica delle scienze sociali troppo spesso ancora vincolate a uno sguardo intrappolato in una prospettiva orientata al “quantitativismo”, alla cultura del “dato senza corpo”. Questo lavoro si inserisce così, pienamente, in una narrazione complessa in grado di restituire la narrazione sociale a chi “fa” la società, cioè a noi stessi.

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Fonte: Il lavoro culturale  


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Articolo tratto interamente da Il lavoro culturale 


Photo credit Marco Cacozza. Rilasciata col consenso dell'autore. (it.wikipedia.org/wiki/carrozze UIC-X) [GFDL or CC-BY-SA-3.0], via Wikimedia Commons




3 commenti:

  1. Quanta gente è crepata perché qualcuno diventasse più ricco?
    Quanti ancora dovranno crepare perché il più ricco diventi ricchissimo?
    tantissima, all'infinito, perché il ricco, il più ricco, il ricchissimo danno lavoro al povero. Il povero muore di fame e farebbe qualsiasi cosa per riempire la pancia come il ricco, il più ricco e il ricchissimo ben sanno.

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  2. Terribili fatti. Ci sono vite che sembra non valgano nulla...
    PS. da pendolare mi chiedo: i vagoni dei treni costruiti da questo grand'uomo saranno mica ancora in circolazione...?

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  3. Purtroppo la casistica è alta in molte zone del Paese e si combattono ancora battaglie nei tribunali. Speriamo abbiano un esito definitivo, almeno sia fatta giustizia.

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