Articolo da Zeroviolenza
Stefano Galieni, Zeroviolenza29 agosto 2015
Scrivo queste battute, in maniera inusuale forse, in prima persona. Stufo un po' di sentir parlare in astratto di modelli "multiculturali" che falliscono mentre le modalità di convivenza umana, concretamente, si realizzano, seppur fra molte difficoltà, preferisco partire da considerazioni individuali che interconnettono due questioni,
quella del modello economico che si è imposto e che ormai è divenuto dogma e quello della mutazione in chiave interculturale di questo, come di altri paesi.
Utilizzo il termine “interculturale” non per vezzo ma in quanto la presenza stabile di alcuni milioni di persone, provenienti dai 4 angoli del pianeta (in Italia non si è mai affermata una immigrazione omogenea dal punto di vista delle nazionalità), ha prodotto sì il proliferare di comunità suddivise in base alla provenienza ma, con il passare del tempo, anche una costante mutazione delle identità precedenti. Chi è qui oggi non è più ciò che era quando è partito, nella lingua, nei tempi e nei ritmi di vita, nella relazione con la società ospitante.
E questo vale maggiormente nei giovani, cresciuti nel sistema scolastico italiano anche se fra mille contraddizioni come per chi si è costruito proprie forme di cittadinanza sociale che lo mettono in relazione con gli autoctoni (il sindacato nel mondo del lavoro dipendente ad esempio) o spazi di inevitabile condivisione come condomini, uffici, negozi e autobus. Tutto risolto allora? Affatto e non solo per i rigurgiti xenofobi, per gli allarmismi sociali, per le forme diverse di autoesclusione, per una legislazione ancora indietro rispetto alla società. C’è secondo me una semplice verità poco esplorata ma terribilmente significativa.
L’Italia, come gran parte dell’Occidente, ha ormai reso strutturale un apartheid di classe, se vogliamo utilizzare un termine desueto, che non separa le persone su base etnica ma di condizione sociale. Per chi ha redditi dignitosi, vive in un quartiere o in una provincia dotata di servizi, paga meno di altri gli effetti della crisi, non si manifesta una distinzione così netta e crudele verso la presenza migrante. Si manifesta una pratica segregazionista verso i poveri, gli esclusi dal ciclo produttivo, i drop out che popolano le città.
Certo in queste fasce sociali la presenza di cittadini provenienti da altri paesi è maggiore e certamente per una parte consistente dei lavori a bassa qualifica, che mantengono in condizione di precarietà e indigenza sono impiegati per lo più uomini e donne non autoctoni. Ma il vero fallimento del modello sociale, depauperato da gran parte delle forme di welfare, ed economico, dove le riforme della Troika- in Italia inghiottite senza colpo ferire – è nell’aver alimentato gerarchie destinate a durare. Inutile sbraitare misere frasi come “prima gli italiani”, non solo razzista ma soprattutto inutile.
Come fanno ad esempio gli “italiani” ad arrivare prima quando l’edilizia popolare da noi è ferma con una media di disponibilità del 4% quando quella europea è del 16%? Le case ci sono e restano invendute o affittate a canoni che solo (autoctoni o migranti) con un buon reddito si possono permettere, gli altri non hanno possibilità. Ed è patetico sentir dire che le “case popolari vanno agli immigrati”, vanno a chi in graduatoria ha un posto più alto, un bisogno maggiore per fragilità e presenza di soggetti vulnerabili ma il problema è che le case popolari sono poche e quelle inutilizzate, lasciate a marcire in attesa di trarne rendita, una enormità.
Posti negli asili nido, grazie ai tagli effettuati ai bilanci, stessa situazione, incentivi all’occupazione, neanche a parlarne. Il lavoro nero prospera come condizione “normale” fra migranti e italiani doc. Certo, restano le leggi infami che permettono espulsione dal territorio per chi non ha un contratto regolare di lavoro, certamente, chi è migrante, gode di meno diritti e spesso subisce vessazioni non solo dallo Stato ma dagli Enti Locali, ma è questo a far fallire un modello meticcio? Ad essere “schiavi del nostro benessere” come giustamente ricorda Bauman non siamo soltanto noi di antica stirpe italica, come piacerebbe dire a qualcuno.
Utilizzo il termine “interculturale” non per vezzo ma in quanto la presenza stabile di alcuni milioni di persone, provenienti dai 4 angoli del pianeta (in Italia non si è mai affermata una immigrazione omogenea dal punto di vista delle nazionalità), ha prodotto sì il proliferare di comunità suddivise in base alla provenienza ma, con il passare del tempo, anche una costante mutazione delle identità precedenti. Chi è qui oggi non è più ciò che era quando è partito, nella lingua, nei tempi e nei ritmi di vita, nella relazione con la società ospitante.
E questo vale maggiormente nei giovani, cresciuti nel sistema scolastico italiano anche se fra mille contraddizioni come per chi si è costruito proprie forme di cittadinanza sociale che lo mettono in relazione con gli autoctoni (il sindacato nel mondo del lavoro dipendente ad esempio) o spazi di inevitabile condivisione come condomini, uffici, negozi e autobus. Tutto risolto allora? Affatto e non solo per i rigurgiti xenofobi, per gli allarmismi sociali, per le forme diverse di autoesclusione, per una legislazione ancora indietro rispetto alla società. C’è secondo me una semplice verità poco esplorata ma terribilmente significativa.
L’Italia, come gran parte dell’Occidente, ha ormai reso strutturale un apartheid di classe, se vogliamo utilizzare un termine desueto, che non separa le persone su base etnica ma di condizione sociale. Per chi ha redditi dignitosi, vive in un quartiere o in una provincia dotata di servizi, paga meno di altri gli effetti della crisi, non si manifesta una distinzione così netta e crudele verso la presenza migrante. Si manifesta una pratica segregazionista verso i poveri, gli esclusi dal ciclo produttivo, i drop out che popolano le città.
Certo in queste fasce sociali la presenza di cittadini provenienti da altri paesi è maggiore e certamente per una parte consistente dei lavori a bassa qualifica, che mantengono in condizione di precarietà e indigenza sono impiegati per lo più uomini e donne non autoctoni. Ma il vero fallimento del modello sociale, depauperato da gran parte delle forme di welfare, ed economico, dove le riforme della Troika- in Italia inghiottite senza colpo ferire – è nell’aver alimentato gerarchie destinate a durare. Inutile sbraitare misere frasi come “prima gli italiani”, non solo razzista ma soprattutto inutile.
Come fanno ad esempio gli “italiani” ad arrivare prima quando l’edilizia popolare da noi è ferma con una media di disponibilità del 4% quando quella europea è del 16%? Le case ci sono e restano invendute o affittate a canoni che solo (autoctoni o migranti) con un buon reddito si possono permettere, gli altri non hanno possibilità. Ed è patetico sentir dire che le “case popolari vanno agli immigrati”, vanno a chi in graduatoria ha un posto più alto, un bisogno maggiore per fragilità e presenza di soggetti vulnerabili ma il problema è che le case popolari sono poche e quelle inutilizzate, lasciate a marcire in attesa di trarne rendita, una enormità.
Posti negli asili nido, grazie ai tagli effettuati ai bilanci, stessa situazione, incentivi all’occupazione, neanche a parlarne. Il lavoro nero prospera come condizione “normale” fra migranti e italiani doc. Certo, restano le leggi infami che permettono espulsione dal territorio per chi non ha un contratto regolare di lavoro, certamente, chi è migrante, gode di meno diritti e spesso subisce vessazioni non solo dallo Stato ma dagli Enti Locali, ma è questo a far fallire un modello meticcio? Ad essere “schiavi del nostro benessere” come giustamente ricorda Bauman non siamo soltanto noi di antica stirpe italica, come piacerebbe dire a qualcuno.
Fonte: Zeroviolenza
Autore: Stefano Galieni
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Articolo tratto interamente da Zeroviolenza
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