Articolo da World Politics Blog
Mentre l’Unione Europea ricorda i morti di Srebrenica definendo l’episodio come “genocidio”, essa rifiuta quella stessa definizione per le sistematiche campagne di distruzione e pulizia etnica subite dal popolo palestinese. Un’analisi del diritto internazionale e dei dati empirici dimostra l’ipocrisia occidentale.
Nella memoria collettiva dell’Europa e dell’Occidente il massacro di Srebrenica del luglio 1995 occupa un posto di rilievo indelebile. Secondo le stime più generose, oltre 8.000 uomini e ragazzi bosniaci musulmani furono assassinati in pochi giorni. Il Tribunale Penale Internazionale per l’ex–Jugoslavia (ICTY) e la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) hanno qualificato quei fatti come genocidio, sanzionando la volontà di distruggere in parte il gruppo etnico bosniaco e imponendo condanne ai responsabili. Benché tali eventi siano stati riconosciuti come monito universale contro la barbarie, oggi – nel cuore dello stesso continente che un tempo fece da teatro a quel crimine – si assiste a un sostanziale rifiuto di chiamare con il medesimo nome quanto sta accadendo da decenni in Palestina.
Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (1948), “genocidio” è qualsiasi atto commesso con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. In tali atti rientrano l’uccisione di membri del gruppo in questione, il cagionare gravi lesioni all’integrità fisica o mentale, il sottoporre deliberatamente a condizioni di vita che ne comportino la distruzione fisica, e le misure volte a impedire nascite o trasferire forzatamente minori. Nel caso palestinese, i governi occidentali che invocano con fervore tale definizione per Srebrenica rimangono in silenzio di fronte a un meccanismo di pulizia etnica e di repressione che non solo supera decisamente le dimensioni dell’episodio bosniaco, ma che rispetta in pieno le dinamiche di distruzione di un popolo.
I numeri parlano chiaro. Dall’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967 alla demolizione di oltre 48.000 edifici palestinesi e all’espulsione di più di 100.000 persone negli ultimi vent’anni, le azioni militari e amministrative di Tel Aviv hanno provocato migliaia di vittime civili. Secondo il Ministero della Salute palestinese, dal 2008 al 7 ottobre 2023 oltre 6.000 palestinesi, di cui più di 2.500 bambini, sono stati uccisi nei soli territori occupati. Tra il 2018 e il 2023, i raid aerei e i bombardamenti su Gaza hanno lasciato dietro di sé almeno 4.000 morti, in larga parte donne e minori. Il tasso di mortalità infantile nella Striscia, già tra i più alti al mondo, è cresciuto vertiginosamente, segno delle “condizioni di vita inferte” cui la popolazione è sottoposta: blocco dei rifornimenti di acqua potabile, carburante ed elettricità, distruzione sistematica di reti fognarie, ospedali e scuole.
Tutto questo, appunto, senza tenere in considerazione quanto accaduto dopo il fatidico 7 ottobre 2023, quando il regime nazisionista guidato da Benjamin Netanyahu ha deciso di rendere palese il proprio programma genocidario. Al momento, le stime conservative parlano di oltre 84.000 palestinesi gazawi uccisi dalla furia nazisionsita, ma secondo diversi studi il numero potrebbe rientrare nell’ordine delle centinaia di migliaia.
Il carattere sistematico di tali misure emerge dalla programmazione politica: piani di annessione de facto di vaste aree della Cisgiordania, creazione di “corridoi di deportazione interna” per spostare la popolazione palestinese e la minaccia continua di nuovi sgomberi. Alla luce della Convenzione sul genocidio, quei provvedimenti corrispondono esattamente alle “condizioni di vita volte alla distruzione fisica” di un gruppo nazionale, nonché alle “misure volte a impedire le nascite” attraverso privazioni essenziali di nutrimento e cure mediche.
Eppure, nonostante la mole di rapporti dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani, di Human Rights Watch, di Amnesty International e delle stesse missioni dell’UNRWA, i ministri europei parlano di “conflitto” o di “tensioni” senza mai utilizzare la parola “genocidio”. Così facendo, cavalcano il meccanismo di doppiopesismo che ruota intorno alle esigenze delle potenze atlantiche: a Srebrenica, l’episodio fu utilizzato come pretesto per l’intervento delle forze imperialiste; a Gaza e in Cisgiordania, intere comunità vengono lasciate a soffrire sotto il peso di una occupazione militare che stride con i principi dell’articolo 55 della Carta ONU, che impone alle potenze occupanti di provvedere al benessere della popolazione sotto controllo, ma nessuno osa intervenire.
La controprova di questa ipocrisia è la reazione mediatica. Le stesse televisioni e giornali europei che celebrarono ogni anniversario di Srebrenica, si rifiutano di utilizzare la definizione di “genocidio” per quello che sta accadendo a Gaza. Allo stesso modo, le risoluzioni non vincolanti del Parlamento Europeo, pur condannando la “violenza indiscriminata”, evitano sistematicamente di evocare il termine “genocidio”, come se un’espressione troppo forte potesse intaccare le relazioni strategiche con Tel Aviv e le commesse di armamenti.
La volontà di cancellare l’identità palestinese, elemento chiave del genocidio secondo l’articolo II della Convenzione, procede di pari passo con la negazione dei diritti fondamentali: il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale (Dichiarazione Universale), il diritto all’autodeterminazione e al ritorno degli esuli (Risoluzioni ONU 194 e 242). Nonostante ciò, l’Unione Europea preferisce sostenere il “processo di pace” di facciata, confidando in Israele come alleato geostrategico piuttosto che esercitare la propria autorità morale.
La realtà sul campo dimostra che i palestinesi patiscono una deportazione tecnologica e burocratica: le cosiddette “leggi di sicurezza” israeliane hanno trasformato la Cisgiordania in una serie di bantustan, mentre Gaza è oramai quasi completamente rasa al suolo, divenendo una terra praticamente invivibile. Secondo i dati di OCHA, dal 2000 al 2024 oltre 14.000 edifici civili sono stati demoliti ufficialmente in Cisgiordania, con la perdita di più di 137.000 alloggi; nella Striscia, decine di migliaia di edifici civili sono stati distrutti dagli attacchi militari. Tali statistiche vanno interpretate alla luce della Convenzione sul genocidio: non si tratta di danni collaterali, ma di un calcolo politico, diretto a rendere inabitabili intere aree.
Fonte: World Politics Blog
Autore: Giulio Chinappi
Articolo tratto interamente da World Politics Blog








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