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giovedì 31 luglio 2025

Il potere di acquisto sempre più giù



Articolo da La Fionda

Anni fa nell’immaginario collettivo si è insinuata l’idea che molti, e a lungo, avessero vissuto al di sopra delle loro reali possibilità e che gli eccessi d’una generazione si sarebbero inevitabilmente ripercossi su quelle successive. Detto in termini spiccioli, a determinare i problemi dell’oggi sarebbero le pensioni anticipate del passato (cioè la possibilità di andare in pensione prima della norma) o i livelli contrattuali degli anni ’60 e ’70, indicati addirittura come causa ultima dei bassi salari odierni. 

A noi questa narrazione non hai mai convinto: nella sua genericità, risulta interamente costruita su luoghi comuni. Chi se ne fa portatore non ama comunicare dati né sul numero degli occupati e dei pensionati, né statistiche aggiornate sul rapporto tra pensione percepita e gli ultimi stipendi in età lavorativa, sugli anni versati e sull’effettivo peso dei contributi. Così come non vi sono analisi di parte governativa che mostrino come, a fronte dell’aumento degli anni lavorati, l’assegno previdenziale perde potere di acquisto.

Ma se veramente si vuole andare alla radice dei problemi odierni, non rimane che proporre esempi concreti. Ad esempio, i part-time involontari: in Italia, il loro numero risulta di gran lunga superiore rispetto al passato. Ed è la stessa stampa ufficiale, di norma propensa a scaricare tutte le responsabilità sulla forza lavoro, a riconoscere che “più della metà dei 3 milioni di lavoratori e lavoratrici part-time, per l’esattezza il 56,2%”, non ha scelto questo specifico rapporto di lavoro. È il sistema produttivo italiano a preferire i contratti di poche ore al tempo pieno, in questo senso volgendo a proprio favore – e anzi alimentando – le disparità di genere che ancor oggi distinguono il Bel Paese. Ora, nel tempo, contratti di questo tipo cosa possono determinare? È evidente: pensioni da fame. Certo, nel caso in questione il problema viene riconosciuto dalle forze politiche di finta sinistra, che sin qui hanno promosso il sistema della precarietà, ma il punto è che certe politiche spregiudicate – e l’attitudine rapace degli imprenditori nostrani – hanno generato una contraddizione con il modo di raccontarsi del nostro Paese. Che cerca in tutti i modi di accreditarsi come avanzato, nonché capace di garantire l’emancipazione femminile in ogni ambito, salvo poi costringere moltissime donne a una condizione subordinata nel mondo del lavoro.

Ma torniamo alla questione previdenziale. Il sistema volto a calcolare l’importo pensionistico è cambiato e l’età media in cui s’inizia a percepire la pensione si è notevolmente alzata: è sufficiente dare un’occhiata al rapporto annuale INPS per comprenderlo.

Per quanto riguarda le pensioni anticipate di qualche anno or sono, va detto che sono state un’eccezione di cui non va sopravvalutato l’impatto. A essere politicamente determinante è stato un incrocio tra due spinte: una sorta di mossa elettorale, dovuta alla classe politica, e la spinta aziendale al ricambio generazionale. Oggi i nuovi posti di lavoro sono pagati meno e, soprattutto nei primi anni, hanno inquadramenti contrattuali peggiori che in passato.

In un prossimo futuro, “l’uscita dal lavoro potrebbe avvenire dopo tredici mensilità in più rispetto alla soglia attuale: quindi, a 68 anni e un mese invece che a 67”. Mentre, per accedere al pensionamento anticipato, sono richiesti ben 41 anni di contributi. Ai nostri genitori, per uscire dal mondo del lavoro con un assegno decente, ne bastavano 35.

Eppure l’incipit del Rapporto annuale Inps appena uscito parla di un aumento dei lavoratori assicurati: “Nel 2024 gli assicurati INPS (vale a dire l’insieme di tutti i lavoratori, dipendenti e indipendenti, obbligati ai versamenti previdenziali) hanno superato i 27 milioni, evidenziando un incremento di circa 400 mila unità rispetto al 2023 (+1,5%) e di circa 1,5 milioni rispetto al 2019 (+5,9%)”.

Aumentando i lavoratori, dovrebbe aumentare anche il gettito contributivo, ossia il totale dei versamenti contributivi effettuati, eppure: “Sostanzialmente stabile, invece, il numero medio di settimane lavorate (circa 43 sia nel 2019 che negli ultimi due anni)”. È probabile, allora, che stia semplicemente aumentando il numero di lavoratori precari e di part-time involontari. Chiaro, dunque, che vi sia una responsabilità imprenditoriale dietro il buco di bilancio previdenziale.

https://www.inps.it/it/it/dati-e-bilanci/rapporti-annuali/xxiv-rapporto-annuale.html

A ben vedere, dunque, l’età previdenziale non si è alzata perché prima si andava in pensione troppo presto. Il punto è che a un certo punto della storia europea le risorse si sono spostate dai redditi al capitale, dal welfare universale alla previdenza integrativa. In questo quadro non ha un carattere neutro l’attività svolta dalla Ragioneria Generale dello Stato. Essa, utilizzando i dati sulla speranza di vita, cerca di far passare per normali, anzi naturali, i continui aumenti dell’età pensionabile. Peccato che quando la speranza di vita decresce, però, gli adeguamenti per il pensionamento vengano puntualmente sospesi con norme ad hoc.

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Fonte: La Fionda

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e

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Articolo tratto interamente da 
La Fionda


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