mercoledì 9 aprile 2025

La cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro



Articolo da Il Manifesto in rete

Avviso ai naviganti della rete approdati a questa rubrica e che si trovino a leggere il presente articolo: prima di parlare di cultura della sicurezza sul lavoro, farò un po’ di filosofia, ed in particolare di quella filosofia cosiddetta del linguaggio; e mi scuso con chi se ne occupa professionalmente per tagli, semplificazioni e approssimazioni, qui inevitabili. Ma mi consola Aristotele, che ebbe a scrivere come non si può fare a meno di filosofare, perché per non farlo, si deve fare appunto un’affermazione che è filosofica.

Della filosofia del linguaggio riporto, tra tante, la definizione che ne dà la mia vecchia Garzantina, cioè: “Qualunque insieme di dottrine filosofiche avente per oggetto il linguaggio umano, o, più in generale, i sistemi di comunicazione elaborati dall’uomo”.  Continuo  a riassumere: il linguaggio umano si serve di espressioni linguistiche, orali o scritte, ciascuna della quali ha uno o più significati sia per chi le produce, sia per chi ne fruisce. Per significato – e uso ancora l’accetta –  possiamo intendere qui da un lato quel che ha in mente, e che vuole indicare/trasmettere, chi produce una espressione linguistica (cit. il linguista Saussure), cosiddetto emittente; dall’altro, le reazioni/risposte che quella espressione linguistica genera nella mente del o dei destinatari (diretti, indiretti, consapevoli/inconsapevoli ecc.). Ed è noto che il classico problema di ogni forma di comunicazione è la coincidenza tra il significato che l’emittente intende dare a quella espressione linguistica, e quello che il destinatario percepisce: unico che realmente conta, e che magari finisce per essere diverso fino ad opposto. E ciò nonostante che in un certo gruppo di fruitori, che abbia avuto processi di apprendimento più o meno simili, intenzioni e reazioni/risposte dovrebbero essere simili, ed anzi esattamente le stesse nei linguaggi tecnici e specialistici.

Ora, se siete sopravvissute/i al rozzo Bignamino filosofico testé esposto, e non avete già virato verso per altre rotte, tornando a parlare di sicurezza sul lavoro tutti possiamo osservare che in Italia,  al verificarsi di un grave/mortale infortunio sul lavoro, magari plurimo, che impatta emozionalmente sulla pubblica opinione e si prende il suo breve periodo di celebrità sui media, ai consueti proclami sulla inaccettabilità di quanto accaduto (che però continua ad accadere, non sapendo di essere inaccettabile) immancabilmente segue il tormentone sulla necessaria “Cultura della Sicurezza”. Politici, rappresentanti di parti sociali, di associazioni di categoria, sindacalisti, magistrati, funzionari degli enti di vigilanza, consulenti, formatore, operatori dei media, raramente mancano di citare  la mancanza di una “Cultura della Sicurezza” come causa principale, o concausa, dell’evento avvenuto. “Cultura della sicurezza” che a loro dire manca, è poca, insufficiente, non conosciuta, trascurata, quindi da diffondere, migliorare, incentivare, promuovere, da fare già nelle scuole, magari finanziare, e via con consimili esternazioni: ma cosa intendono per cultura della sicurezza? Siamo sicuri che abbiano tutti in testa la stessa cosa? E io che scrivo, e chi legge, cosa pensiamo, cosa capiamo quando sentiamo, leggiamo, magari parliamo e scriviamo usando questa espressione?  Mentre chi legge fa un proprio rapido controllo, una cosa è certa: una spiegazione, o meglio definizione di cosa si intenda, di solito manca del tutto; e quando c’è, resta di solito confinata ad un rinvio a conoscenza e applicazione delle norme e delle regole vigenti,  il che (cfr. infra) non può bastare.

Proseguiamo a fare un po’ di rozza analisi linguistica sull’espressione “cultura della sicurezza sul lavoro”. Partendo dalla specificazione, assumiamo che sia sufficientemente chiaro cos’è il lavoro umano, svolto in forma autonoma o dipendente nella società odierna con tutte le sue regole giuridiche e caratteristiche tecniche, organizzative, economiche.

Quanto alla sicurezza sul lavoro, potremmo definirla oggettivamente grosso modo la mancanza, o più realisticamente la maggior diminuzione possibile, di eventi e/o situazioni dannosi (o potenzialmente dannosi, si pensi ai near misses) connessi al lavoro stesso che possano colpire, o colpiscano, persone, (in primo luogo chi il lavoro lo svolge), e/o cose. E se pur verificatisi che abbiano la minor possibile gravità, cioè entità dei danni in termini di durata se temporanei e gravità se  permanenti. Dette assenze e/o riduzione di eventi dannosi sono l’obiettivo, sappiamo,  di tutto un complesso di apposite norme giuridiche, regole tecniche, strumenti organizzativi, attività formative, attività di controllo, con un livello minimo obbligatorio per legge, ma con sempre possibili implementazioni e miglioramenti. Osservo però che a tale concezione oggettiva e negativa della sicurezza sul lavoro, si potrebbe affiancare una concezione positiva e soggettiva: cioè la consapevolezza, o forse meglio la fiducia, in chi lavora, che tali eventi nocivi non si verificheranno perché l’organizzazione assicura che non accadano, e che personalmente le persone hanno a disposizione tutti gli strumenti (e la possibilità concreta di usarli) per fare la propria parte. Esiste cioè una sicurezza non solo fisica ma anche psicologica (c’è chi parla di ergonomia psicologica), altrettanto importante ma scarsamente attenzionata, nonostante i moniti e gli studi della psicologia del lavoro. La sicurezza, nella sua duplice accezione, vede comunque sfumare il confine con il più ampio concetto di benessere lavorativo, benessere che come la sicurezza (non ci deve stancare di ripeterlo) a sua volta è parte della complessiva gestione aziendale.  Raggiungere tale sicurezza soggettiva può essere relativamente facile per gli infortuni, e almeno per quelli che possono accadere all’interno dell’organizzazione; ma ciò purché l’organizzazione sia “virtuosa” (o, almeno, rispetti le norme)  e operi per garantire tale sicurezza, anziché, come purtroppo la cronaca non smette di ricordarci, la sicurezza ceda ad altre priorità, quali diminuzione di tempi e costi e incremento degli utili, o ne manchino i presupposti in termini di conoscenze e strumenti. Ma anche in una organizzazione virtuosa esistono elementi non controllabili dall’organizzazione stessa, si pensi agli eventi legati alla circolazione, a appalti e forniture, e soprattutto a tutti i rischi psicosociali.

Più complesso invece il significato di “cultura”, significato che cambia a seconda degli ambiti (filosofico, antropologico, sociologico ecc.) in cui il termine viene usato. Di tutti i possibili significati del termine  in una accezione diciamo comune e senza ulteriori specificazioni, dal dizionario Treccani (https://www.treccani.it/vocabolario/cultura) riporto, per estratto,  quelle che mi paiono fare al caso nostro.

  1. “L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo …
  2. L’insieme delle conoscenze relative a una particolare disciplina …
  3. Complesso di conoscenze, competenze o credenze (o anche soltanto particolari elementi e settori di esso), proprie di un’età, di una classe o categoria sociale, di un ambiente: c. contadina, c. urbana, c

c. industriale; la c. scritta e la c. orale …

  • In etnologia, sociologia e antropologia culturale, l’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale …
  • l’idealizzazione, e nello stesso tempo la scelta consapevole, l’adozione pratica di un sistema di vita, di un costume, di un comportamento, o, anche, l’attribuzione di un particolare valore a determinate concezioni o realtà, l’acquisizione di una sensibilità e coscienza collettiva di fronte a problemi umani e sociali che non possono essere ignorati o trascurati. (c. della vita,…  della morte, …. del lavoro …. della povertà … dell’assenteismo della pace … della solidarietà … dell’altruismo …. del dialogo … del profitto … c. ecologica o ambientaledel turismo ecc.   Esempi  tutti questi, che possono essere classificati sotto la triplice ripartizione, che talora viene enunciata, di una cultura ideologica, una cultura  materiale, una cultura comportamentale

Un primo significato, più ristretto e “tecnico”, e credo prevalente, dell’espressione cultura della sicurezza sul lavoro è riconducibile ai punti 2 e anche 3:  ma è piuttosto evidente che si tratti di ricadute di fenomeni ben più ampi e complessi, sovraordinati, o meglio di base, come la ricerca scientifica e tecnologica, il sistema formativo nel suo complesso, la struttura economica, istituzionale, sociale. E si tratta di elementi dati in certi tempi e luoghi, sui quali un’azione richiede tempo e non ha ricadute immediate e dirette.

Il significato di cui al punto 4 è ugualmente utilizzabile se si considera una azienda, o altra organizzazione produttiva, come un gruppo sociale, in quanto necessariamente composto da esseri umani; ma anche in questo caso, come per i due significati precedenti, il gruppo sociale è inserito in un contesto più ampio, imprescindibile e lento e complesso nei cambiamenti.

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Fonte: Il Manifesto in rete 

Autore: 
Maurizio Mazzetti

Licenza: Creative Commons (non specificata la versione


Articolo tratto interamente da Il Manifesto in rete


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