venerdì 11 aprile 2025

L’automazione aumenterà lo sfruttamento?


Articolo da Guerre di Rete

Il timore che le intelligenze artificiali (AI) possano sostituire i lavoratori è al centro di un dibattito acceso. Un dibattito che però trascura l’impatto di queste tecnologie sulla qualità delle condizioni di lavoro esattamente come in passato è avvenuto per varie forme di automazione industriale.

Per approfondire questo tema, ci siamo avvalsi della lente di ingrandimento di Jason Resnikoff, professore di Storia contemporanea all’Università di Groninga (Paesi Bassi) e autore del libro “Labor’s End: How the Promise of Automation Degraded Work”. 

Resnikoff è specializzato in storia del lavoro, storia del capitalismo globale, storia intellettuale e storia della tecnologia e ha un’esperienza pregressa tra le file della United Auto Workers, sindacato statunitense che rappresenta i lavoratori dell’industria automobilistica, oltre ad altri settori come l’istruzione superiore, la sanità e il gaming.

Le ricadute dell’automazione secondo Resnikoff

Secondo Resnikoff, l’automazione porta con sé un paradosso: presentata come una spinta verso una società migliore, in realtà ha contribuito ad aumentare, accelerandolo, lo sfruttamento del lavoro. Un argomento che appare molto attuale in relazione all’odierno dibattito sull’impatto dell’AI. In poche parole, si parla molto di come l’AI renderà le imprese più produttive o competitive, o di come le macchine sostituiranno dei lavoratori o faranno lavori noiosi al posto nostro, e si parla molto poco di come invece questa nuova ondata tecnologica potrebbe ampliare lo sfruttamento del lavoro (umano).

Nel suo libro Resnikoff entra nei meandri dell’automazione negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà del secolo scorso, rilevando da subito il paradosso secondo il quale, benché dovesse migliorare la società, l’automazione ha portato a un rapido sfruttamento del lavoro. Per Resnikoff, sono la globalizzazione e la sovrapproduzione a causare le maggiori perdite di posti di lavoro e non l’automazione in sé, alla quale però riconosce il demerito di creare “una razza di schiavi costituzionalmente incapaci di ribellione”.

Tutto ciò malgrado nei decenni passati molti analisti dell’automazione fossero ottimisti e credessero in un mondo utopico in cui si sarebbe lavorato meno a parità di stipendio, nota il professore, ovvero qualcosa di simile a ciò che si ipotizza oggi parlando delle AI e della robotica.
Per capire meglio, gli abbiamo fatto alcune domande.

Professor Resnikoff, come e perché pensa che l’automazione degradi il lavoro?

“I dati storici mi portano a questa conclusione. Il termine ‘automazione’ è stato coniato dal dipartimento motori della Ford negli anni ’40 per evocare l’idea di progresso tecnologico e contrastare il movimento sindacale industriale, che l’azienda aveva da poco dovuto riconoscere per imposizione del governo federale. Nel dopoguerra, la parola ‘automazione’ non indicava una tecnologia specifica. John Diebold, definito dal New York Times l’evangelista dell’automazione, ha affermato che per i dirigenti d’impresa definire l’automazione era complesso quanto per i teologi definire il peccato. Questo dimostra come il termine fosse usato indiscriminatamente per descrivere qualunque cambiamento tecnologico nel luogo di lavoro.

L’automazione è stata soprattutto una narrativa secondo cui il progresso tecnologico porta inevitabilmente a una diminuzione del lavoro umano. Questa idea ha avvantaggiato le grandi aziende, che hanno sfruttato l’utopismo tecnologico e l’ottimismo per sostenere che il lavoro umano non contribuisce (o presto non contribuirà più) al processo produttivo”.

Cosa è quindi l’automazione?

“È tanto una copertura retorica per il degrado del lavoro quanto un processo materiale. Gli esempi del periodo postbellico sono numerosi: l’introduzione dei computer nel lavoro d’ufficio e l’introduzione degli utensili elettrici nel confezionamento della carne sono due esempi particolarmente toccanti. Oggi, tutto ciò viene fatto dai datori di lavoro invocando l’intelligenza artificiale.
Amazon ha affermato che la fatturazione nei negozi fisici fosse automatizzata, ma era svolta da lavoratori in India. Oppure, Presto Automation ha attribuito a sistemi automatizzati il servizio nei fast-food statunitensi, in realtà gestito da lavoratori nelle Filippine.

Ciò che viene chiamato ‘automazione’ si potrebbe definire ‘outsourcing’, che peggiora le condizioni dei lavoratori locali obbligandoli a competere con manodopera a basso costo. Dall’inizio della rivoluzione industriale, i datori di lavoro hanno utilizzato macchine per frammentare lavori qualificati, assumendo manodopera meno costosa e aumentando i ritmi di lavoro. Nel dopoguerra, il termine ‘automazione’ ha camuffato questo fenomeno come risultato naturale del progresso tecnologico, nascondendo il vero intento di controllo del processo lavorativo e compressione dei salari”.

L’automazione può davvero creare dei “nuovi schiavi” o è una provocazione?

“L’automazione, tecnicamente parlando, non fa nulla. Non è un processo tecnologico o storico ben definito. Sostengo che gran parte di ciò che viene chiamato automazione sia ben poco tecnologico, ma piuttosto una narrativa che i datori di lavoro usano per degradare il lavoro (piuttosto che abolirlo tecnologicamente). Piuttosto, suggerirei che questa sia la suggestione legata all’idea di automazione, in particolare per i datori di lavoro, ma talvolta, sorprendentemente, anche per dirigenti sindacali, utopisti di sinistra e alcuni lavoratori stessi.

Aristotele sosteneva che alcune persone fossero ‘schiavi naturali’. Nel XX secolo, spesso si è invocata l’idea dell’automazione per sostenere che i nuovi ‘schiavi naturali’ fossero le macchine. Ritengo che questo modo di pensare sia pericoloso per i lavoratori, poiché presuppone che gran parte del lavoro, in teoria, debba essere svolto in condizioni coercitive e degradate. Il problema principale è che i lavoratori umani rimangono (e rimarranno) essenziali per l’economia e, perpetuando questa idea di lavoro, saranno costretti sempre più a lavorare in condizioni degradanti”.

Secondo lei, le aziende preferiscono l’automazione o la sostituzione dei lavoratori con altri lavoratori (delocalizzando quindi dove il lavoro costa meno)?

“La maggior parte delle aziende non si impegna esclusivamente in una o nell’altra strategia. Generalmente, le aziende di successo puntano a ottenere profitti. Se una macchina aiuta a raggiungere questo obiettivo, utilizzeranno una macchina; se invece è il lavoro umano a essere più vantaggioso, opteranno per quello. In genere, combinano macchine e lavoro umano per ottenere il massimo vantaggio.

Le macchine possono essere molto costose e rappresentano costi fissi, ma possono eseguire alcune fasi del lavoro rapidamente o contribuire a rendere più economico il lavoro umano. Le persone possono essere licenziate, ma possono anche essere più difficili da controllare e potrebbero organizzarsi in sindacati. La combinazione tra macchine e lavoro umano varia costantemente. Storicamente, i datori di lavoro hanno usato le macchine per rendere il lavoro umano più economico, ma quel lavoro umano a basso costo è rimasto (e generalmente rimane) essenziale per il processo produttivo.

Georges Doriot, professore della Harvard Business School negli anni ’40 e ’50, una volta disse che la fabbrica ideale non avrebbe avuto lavoratori. Tuttavia, quando aziende come la Ford iniziarono a considerare l’idea di costruire fabbriche senza lavoratori (cosa impossibile all’epoca), si resero conto che sarebbe stato incredibilmente costoso, impraticabile e fisicamente irrealizzabile.

Quel sogno di automazione completa è semplicemente un sogno manageriale: un sogno in cui non si dovrebbe dipendere da altre persone, ossia dai lavoratori. Quando si tratta di fare profitti, però, quel sogno si rivela essere una fantasia”.


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Articolo tratto interamente da Guerre di Rete


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