martedì 29 aprile 2025

Lo sfruttamento agricolo nel Centro-Nord



Articolo da Progetto Melting Pot Europa

Dal Prosecco al Barolo, passando per il melone mantovano: tra cooperative senza terra, salari e pressione della grande distribuzione, il volto invisibile dello sfruttamento agricolo nel Centro-Nord.

Caporalato e sfruttamento lavorativo non sono presenti solo al Sud Italia. Oggi anche i distretti di eccellenza dell’agroalimentare Made in Italy, tra Lombardia, Veneto, Piemonte e Friuli, ne sono segnati. Maltrattamenti, irregolarità sulle paghe, lavoro grigio, cooperative senza terra: è questo il volto nascosto che emerge dal report “Gli Ingredienti del caporalato – Il caso del Nord Italia” 1, pubblicato dall’associazione Terra!.

Sono le terre del Prosecco, del Barolo, del Moscato: vini pregiati, venduti a caro prezzo nei supermercati italiani e di tutto il mondo. Eppure, dietro queste eccellenze si nascondono forme più o meno palesi di sfruttamento. Un dato più di ogni altro sintetizza la portata del fenomeno: nel 2023, il 55% dei casi di sfruttamento lavorativo rilevati dal Laboratorio ADIR-FLAI-CGIL si è verificato al Centro-Nord, superando per la prima volta quelli registrati al Sud (45%). In testa alla classifica la Lombardia, sia per ricavi di produzione sia per procedimenti giudiziari.

Non va meglio nelle Langhe piemontesi: nell’estate del 2024, le tre inchieste giudiziarie riunite sotto il nome “Iron Rod” (il bastone di ferro usato per picchiare i braccianti) 2 hanno svelato turni di 15 ore pagati 3 o 5 euro l’ora, violenze, minacce, condizioni abitative e igieniche disumane.

A rendere ancora più evidente l’iniquità della filiera agroalimentare sono i numeri forniti da ISMEA 3, l’ente pubblico che monitora il settore: su cento euro di spesa al supermercato, solo un euro e mezzo finisce nelle tasche degli agricoltori.

Il prezzo finale di un prodotto dovrebbe riflettere il costo di tutti gli anelli della filiera – raccolta, trasformazione, logistica, distribuzione -, ma di fatto a dettare legge è la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), il sistema delle grandi catene di supermercati, ipermercati e discount.

La pressione dei colossi della distribuzione obbliga gli agricoltori a tagliare i costi, e il primo a pagarne il prezzo è l’ultimo anello della catena: il bracciante. Si cercano prestazioni poco qualificate, concentrate in periodi brevi, con salari bassissimi e giornate di lavoro ben oltre le otto ore.

Per alcuni tipi di frutta, come il melone, la raccolta avviene in pochi giorni, rendendo impossibile qualunque stabilizzazione dei lavoratori. Negli ultimi anni, al calo degli stranieri comunitari si è affiancato un aumento di lavoratori provenienti dall’Africa sub-sahariana e dall’Asia meridionale.

Sono persone spesso in condizioni di estrema vulnerabilità, costrette ad accettare qualsiasi impiego pur di sopravvivere. Chi, cioè, «si trova in una situazione di indigenza e marginalità sociale per cui, da un lato avverte impellente il bisogno di lavorare, dall’altro, non ha la possibilità di accedere a impieghi migliori, sia perché privo di una formazione in grado di renderlo più competitivo sul mercato del lavoro, sia per l’assenza di strategie politiche capaci di aumentare le sue chance occupazionali», spiega il rapporto.

La gestione della manodopera avviene attraverso la rete delle cosiddette “cooperative senza terra”: soggetti formalmente regolari che forniscono servizi agricoli e personale, pur non possedendo campi. Qui il caporalato si maschera da legalità: caporali – spesso stranieri – reclutano connazionali o ospiti dei CAS locali, organizzano il lavoro, trattengono una parte dei salari, utilizzano codici Ateco fittizi (trasporti merci, lavorazioni meccaniche) e presentano bilanci apparentemente in ordine. Il meccanismo è semplice: l’azienda agricola versa alla cooperativa l’importo previsto dal contratto provinciale di categoria, ma la cooperativa, a sua volta, riconosce ai lavoratori solo una parte della paga dovuta.

Piemonte: la nuova frontiera dello sfruttamento nelle Langhe

«Sono arrivato in Italia a febbraio 2023. Alcuni amici ad agosto mi hanno portato ad Alba e lì, alla stazione, un uomo ci ha chiesto se avevamo bisogno di lavorare. Il giorno dopo siamo andati nelle vigne. Lui ha preso i nostri documenti, ci ha detto che servivano per i contratti. La paga doveva essere 7 euro all’ora. Lui non ci pagava. Gli ho chiesto i nostri soldi e lui ha iniziato a discutere e poi a picchiare il mio collega». 

È una delle tante storie emerse nelle Langhe, nel cuore del Piemonte, dove negli ultimi due anni sono stati accertati gravi casi di caporalato. Nella sola Alba, per una trentina di lavoratori è stato richiesto il rilascio del permesso di soggiorno per grave sfruttamento lavorativo.

Lì, dove si producono vini DOCG come Barolo, Barbaresco e Moscato d’Asti, il 64% dei braccianti è di origine straniera, provenienti in gran parte da Bangladesh e Pakistan. Sono impiegati con contratti a tempo determinato nella raccolta della frutta e nella vendemmia, spesso in condizioni di estrema vulnerabilità.

Se nelle Langhe il caporalato è diventato parte strutturale del sistema produttivo, altrove il panorama agricolo offre esempi di resistenza virtuosa. È il caso di Saluzzo, nel Cuneese, tra frutteti di mele, kiwi e pesche.

Negli anni più drammatici, Saluzzo era il simbolo della precarietà: centinaia di braccianti stranieri, per lo più provenienti dall’Africa sub-sahariana, vivevano in tende improvvisate ai margini della città, senza accesso a servizi essenziali. Oggi, grazie a un lungo lavoro di rete tra istituzioni, associazioni, sindacati e volontariato, la situazione è cambiata.

Nel giugno 2020 è stato firmato un Protocollo d’intesa che ha reso disponibili 115 posti letto per i lavoratori stagionali contrattualizzati o in cerca di occupazione. Un primo passo che ha trasformato la gestione dell’accoglienza e ha costruito un modello replicabile di contrasto allo sfruttamento.

«A Saluzzo il territorio ha lavorato per rendere i servizi realmente accessibili ai lavoratori stagionali, che così diventano visibili e agganciabili. Prima, le barriere linguistiche e culturali rendevano impossibile anche solo andare in Posta. Ora le persone si fidano di più dei servizi. È questa la grande differenza con le Langhe», racconta un’operatrice.

Lombardia: eccellenze agricole e nuove frontiere dello sfruttamento

Campi di insalata in busta, filari di meloni nella bassa mantovana, allevamenti bovini nelle campagne di Brescia e Cremona: l’agricoltura lombarda, con un valore di oltre 14 miliardi di euro, si presenta come una delle più forti d’Italia​. Ma dietro l’apparente prosperità, il report svela un sistema in cui il lavoro irregolare è tutt’altro che marginale.

Nell’estate del 2024, nel territorio della provincia di Mantova, dai controlli su trenta aziende agricole sono state inoltrate venti denunce per violazioni di materia di sicurezza, sei per caporalato, tre per impiego di manodopera clandestina e otto per somministrazione di lavoro irregolare. Nella zona, l’80% dei lavoratori è a tempo determinato. Della totalità degli impiegati nel settore, la metà è costituita da lavoratori stranieri. 

Anche in Lombardia, lo sfruttamento si rinnova: cooperative “senza terra“, appalti fittizi, contratti camuffati dietro codici ATECO falsi. I braccianti, in gran parte migranti, vengono reclutati in un sistema con paghe sotto i minimi contrattuali, orari massacranti, alloggi insalubri.

I caporali gestiscono ogni aspetto della vita del bracciante, e spesso si intestano l’affitto della casa, traendo un guadagno dalle quote incassate dalle otto o nove persone stipate in pochi metri quadri.

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Fonte: Progetto Melting Pot Europa 

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Articolo tratto interamente da Progetto Melting Pot Europa


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