Articolo da ADL Cobas
Due documenti pubblicati a distanza di soli due giorni fotografano l’intollerabile crescita della disuguaglianza dei redditi, del basso livello dei salari e, più in generale, della povertà lavorativa in Italia. Guerra, ristrutturazione delle catene del valore tedesche e questione salariale sono tre aspetti inestricabili. È a questa altezza del problema che va ripresa la lotta sui salari, sul salario minimo legale, sul welfare e sulle forme della rappresentanza sindacale.
Il primo documento, che ha fatto molto discutere negli ultimi giorni, è stato il Rapporto mondiale sui salari (2024-25) curato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) di Ginevra e presentato a Roma il 24 marzo. L’ennesima conferma della pesante «crisi salariale» italiana. Un testo che si aggiunge ad una lunga lista di studi di istituzioni internazionali e di statistiche ufficiali di cui oramai si è perso il conto. Negli ultimi diciassette anni i salari reali italiani hanno accumulato la contrazione più elevata nell’ambito dell’economie avanzate del G20, con una perdita pari a -8,7 punti percentuali. Nel quadro di un generale declino del potere di acquisto delle retribuzioni italiane nell’intero periodo, due sono stati gli intervalli più significativi.
Tra il 2009-2012, nel contesto della crisi finanziaria globale, in Italia la contrazione dei salari reali si è fatta sentire più che altrove. Sono gli anni, ricordiamolo, dell’«estremismo di centro» delle politiche neoliberali. Incombeva la crisi dei debiti sovrani nel cuore dell’Europa. Dopo la Grecia, l’Italia pagò il prezzo più alto delle politiche economiche austeritarie, sotto la spinta dell’allora ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, figura chiave dello Schwarze Null (pareggio di bilancio). Assurto dogmaticamente a «legge aurea» sin dall’inizio della svolta neoliberale, questo approccio di politica economica in realtà ha contribuito per un lungo periodo ad assicurare all’economia tedesca una funzione di traino fondata sulle esportazioni di merci, favorendo indirettamente sentieri salariali divergenti all’interno del vecchio continente. Blocco del turn-over e della contrattazione nella P.A., ricorso all’esternalizzazione di servizi mediante appalti, nuove regole della contrattazione collettiva nel privato con l’Accordo interconfederale del 2009 – solo per fare tre esempi – hanno profondamente contribuito ad accentuare la contrazione dei salari reali nel nostro paese. Il secondo e più recente intervallo, tra il 2022 e il 2023, è segnato dalla crisi inflattiva che ha picchiato particolarmente duro sulle retribuzioni italiane, in un contesto già dominato da insopportabili ritardi nei rinnovi contrattuali (a fine dicembre 2024 secondo Istat la metà dei dipendenti privati aveva ancora un contratto collettivo scaduto). La questione, come mostrato da diversi studi, è che l’inflazione del biennio ha scatenato in Italia la più rapida distruzione del salario reale dal secondo dopoguerra.
Forse isolati questi due intervalli, che guarda caso coincidono con due momenti di crisi, è più facile comprendere che la «questione salariale» italiana non si può affrontare con le pennellate dei tagli del cuneo fiscale come sostiene il governo Meloni, perché è un aspetto strutturale alle trasformazioni capitalistiche in atto, che dalla crisi dei sub-prime del 2007 arrivano fino all’attuale regime di guerra globale.
Cosa è accaduto più o meno nello stesso periodo alle imprese? Secondo l’ultimo rapporto Le medie imprese industriali italiane di Mediobanca – il presunto fiore all’occhiello del capitalismo italiano, quello delle aziende leader dei distretti, il motore del cosiddetto made in Italy, coccolato dall’attuale destra reazionaria come dai passati governi di centro-sinistra –, tra il 2013 e il 2022, il valore aggiunto prodotto è cresciuto del 47,3%, mentre il margine operativo netto (in altri termini i profitti) è aumentato del 96,8%.
Cos’è questo? Mero conflitto distributivo? Remunerazione del rischio d’impresa? No. È l’espressione violenta di una «guerra di classe» agita senza sosta. Solo che questo, come ricorda spesso Sergio Bologna, è il volto più «pulito» di questa guerra. La parte «sporca», per così dire, sta nel sistema di appalti e subappalti della logistica, nelle piccole aziende del terziario avanzato che pretendono alte competenze senza assicurare una retribuzione, nei comparti del lavoro di cura più precarizzati, nel riemergere del lavoro neo-servile in agricoltura. A queste, poi, si aggiunge anche una terza parte, diciamo più «invisibile», che sta nell’esplosione di lavoro non retribuito fuori l’orario di lavoro, fuori dai contratti standard, così come nelle pieghe della stessa prestazione di lavoro dipendente apparentemente tutelata, come il lavoro delle insegnanti o in altri settori della riproduzione sociale o del terziario.
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Autore: Biagio Quattrocchi

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Articolo tratto interamente da ADL Cobas
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