Articolo da GlobalProject
A poco meno di due mesi dalle elezioni politiche, con panettone e spumante ancora sullo stomaco, è partito il rush finale della campagna elettorale. In realtà il sipario si è aperto da tempo, ben prima dello scioglimento formale delle Camere. Ma l’atmosfera che si respira in questo “teatro” non è intrisa di quella magia e quel silenzio profondo di lynchiana memoria. C’è un frastuono che sa di inconcludente bagarre, c’è un illusionismo che puzza di fregatura già dalle prime mosse.
Reddito “di dignità”, abolizione delle tasse universitarie, abrogazione della riforma Fornero: un interno patrimonio di istanze sociali e battaglie politiche che negli anni scorsi hanno tenuto vivo il livello di mobilitazione nel nostro Paese è entrato, come se nulla fosse, nel tritacarne elettoralista. Ma d’altronde i patrimoni, soprattutto quelli immateriali, sono fatti per essere dilapidati e la rendita non è mai stato strumento nelle mani dei movimenti. Non c’è da stupirsi, dunque, e sa tanto di sterile opinionismo quel tam tam sviluppatosi sui social network nel quale ci si rivendica la paternità di queste tematiche, in nome dell’ardore di battaglie che furono o che, in maniera più effimera, sono.
La campagna elettorale è per antonomasia il regno delle illusioni, della fiction politica portata ai livelli più estremi, è l’antitesi di quello spazio pubblico nel quale spesso si sono sedimentati e nutriti i conflitti sociali. Non per questo va ignorata, non solo per capire quale sarà il colore del prossimo nemico, ma per scorgere e cavalcare le contraddizioni di quel Paese Legale che mai come adesso vede realizzarsi la crisi compiuta della rappresentanza politica e istituzionale[1], soprattutto sul piano statual-nazionale.
Siamo all’atto finale, quello in cui si calano gli assi dalla manica e i “giochi di palazzo” diventano più trepidi. Ad entrare in scena in questi primi giorni dell’anno tutti i big della competizione: Paolo Gentiloni, ospitato dal sempre più fido Fabio Fazio a Che tempo che fa; Silvio Berlusconi, che sceglie Circo Massimo di Radio Capital per la prima uscita pubblica di rilievo del 2018; Luigi Di Maio, che ha virato sul “salotto buono” di Bruno Vespa. Il primo è ormai da mesi la voce più accreditata del Pd a parlare della competizione elettorale, insignito non tanto dal titolo di premier uscente quanto dalla debolezza interna di un partito neppure in grado di esprimere una chiara leadership. Il secondo è stato virtualmente incoronato alla testa di un redivivo centro-destra dopo il vertice di Arcore, con buona pace – apparente – di Giorgia Meloni e, soprattutto, di Matteo Salvini. Il nodo della candidatura a primo Ministro non è ancora stato risolto dalla coalizione e le voci di una possibile convergenza su Bobo Maroni, il leghista tanto “amato” da Berlusconi quanto “odiato” da Salvini, sembrano al momento essere smentite. Discorso diverso per Di Maio, da mesi scelto come candidato premier di un partito che ormai, anche sul piano pubblico, ha abdicato rispetto alle velleità di quella democrazia liquida che ne era stato elemento costitutivo nella fase del boom politico.
Il trait d’union tra le tre interviste è rappresentato dal tema della governabilità, divenuto sempre più caro a tutte le forze politiche che si apprestano a sostenere un confronto elettorale all’interno di un quadro che, per la sua instabilità, ricorda da vicino le elezioni spagnole del dicembre 2015. L’ex premier, conscio della posizione di netto svantaggio dalla quale parte il suo partito, ha chiaramente espresso la «speranza che il Paese non venga lasciato in mano a forze che non sappiano governare», rivendicando nel suo operato l’aver «contribuito a un rasserenamento del clima politico». L’unica capacità da parte del Pd di captare consenso consiste nella forza della continuità, nella permanenza sistemica di un modello di governamentalità funzionale alle esigenze delle vecchie e nuove élite economico-finanziarie. Tra le righe del discorso di Gentiloni emerge anche un altro aspetto, complementare al primo anche se più criptico. Il premier uscente, nella logica del «dico no per dire si», si candida ad essere il fulcro di un eventuale governo del Presidente che, con ogni probabilità, si riproporrà nella scena politica italiana in caso di instabilità post-elettorale.
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Fonte: GlobalProject
Autore: Antonio Pio Lancellotti
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Articolo tratto interamente da GlobalProject
Articoli come questo non fanno altro che portare l'elettorato all'astensione dal voto, che è, a mio avviso, il male peggiore che possa capitare. Si dovrebbero informare gli elettori sui programmi dei partiti che si presentano alle elezioni e metterli in condizione di poter scegliere e farsi un'opinione, liberati da luoghi comuni e frasi fatte.
RispondiEliminaBuona giornata.
Ti auguro una buona serata.
EliminaCredo che non cambierà nulla, e ritorneremo a criticare tutti.
RispondiEliminaCiao e buona serata con un forte abbraccio e un sorriso:-)
Tomaso
Anch'io non prevedo sorprese.
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