Articolo da Enciclopedia delle donne
Ciò che posso dire di Liliana Segre è la mia soggezione. Perché Liliana porta in sé Auschwitz, e la severità che questo comporta. Lei sa che Auschwitz è accaduto, che Auschwitz ha potuto accadere.
Era una bambina di tredici anni, orfana di madre fin dall’età di un anno, e tuttavia felice, amata, viziata da un padre che, pur continuando a lavorare alacremente, aveva riposto in lei ogni ragione di vita. Con loro, a Milano, in corso Magenta, vivevano anche i due nonni paterni. Conducevano una vita agiata, frequentavano l’Ippodromo di San Siro, la domenica pranzavano con gli amici al Savini in Galleria; Liliana era una Piccola italiana, come tutte le bambine cresciute sotto il fascismo. Poi, nel 1938, le leggi razziali: le progressive limitazioni nel lavoro, il repentino voltafaccia degli amici, la consapevolezza delle umiliazioni subite dai grandi e inutilmente nascoste ai bambini, l’incomprensibile espulsione dalla scuola. «Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile, che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre». Poi la guerra, i bombardamenti, la caccia all’ebreo.
Un lungo periodo di vita nascosta, braccata tra la Brianza e la Valsassina, infine il tentativo di trovare la salvezza in Svizzera, e l’arresto al confine. «La storia di questa fuga grottesca la racconto sempre, quando vado a testimoniare nelle scuole, perché sulle prime mi sentivo un’eroina, sui valichi dietro Varese. Era inverno e attraversavamo i boschi, io e mio papà: passavamo il confine come clandestini, come animali sulle montagne. Eravamo liberi, pieni di speranza. Ma arrivati di là, un ufficiale svizzero tedesco ci trattò come degli imbroglioni, come delle cose orribili che capitavano proprio a lui, e ci respinse, ci consegnò agli italiani, condannandoci a morte». Fu un sollievo, paradossalmente, sentire che ciò che li attendeva non era più nelle loro mani: il senso che la continua, angosciosa responsabilità del futuro fosse finita. Ora spettava ad altri decidere della loro vita. Era l’8 dicembre 1943. Dal comando di Selvetta di Viggiù, Liliana e Alberto Segre vennero trasferiti nel carcere di Varese, poi in quello di Como e infine a San Vittore, a Milano, in quel Quinto raggio che il fascismo aveva destinato agli ebrei. Il 30 gennaio 1944, in una Milano indifferente, dove solo i carcerati si affacciarono alle finestre per un ultimo saluto commosso, i detenuti ebrei di San Vittore – più di seicento persone, tra cui quaranta bambini, inclusa Liliana – vennero caricati su una fila di camion coperti e condotti alla Stazione Centrale. «Il passaggio fu velocissimo: SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza. Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio, nel sotterraneo della stazione, illuminato da fari potenti, tra grida, latrati dei cani, fischi e violenze terrorizzanti. Nel vagone buio c’era solo un po’ di paglia per terra, e un secchio per i nostri bisogni» [1] .
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Fonte: Enciclopedia delle donne
Autore: Daniela Padoan
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Articolo tratto interamente da Enciclopedia delle donne
Pienamente d'accordo per la nomina di questa grande Persona.
RispondiEliminaLa sua presenza nobiliterà le nostre istituzioni, ed è un invito importante A NON DIMENTICARE.Perchè questa immane tragedia non abbia a ripetersi mai più.
Mai dimenticare!
EliminaGiusto riconoscimento, forse un po' tardivo.
RispondiEliminaSono d'accordo.
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