mercoledì 22 luglio 2015

Si chiamava Mohamed, e sognava una vita migliore



Articolo da Cronache di ordinario razzismo

Omicidio colposo. Questo è il reato ipotizzato dalla Procura di Lecce nei confronti della titolare dell’azienda per cui Mohamed lavorava, nelle campagne di Nardò, dove è morto sotto un sole cocente due giorni fa (ne abbiamo parlato qui). Altri due sono i nomi iscritti nel registro degli indagati dal pubblico ministero: il marito della donna (già coinvolto in un’altra inchiesta sullo sfruttamento della manodopera straniera nella raccolta delle angurie) e il presunto intermediario, un cittadino sudanese, a cui gli investigatori hanno sequestrato un quaderno con i nomi e i compensi dei lavoratori impiegati come braccianti. Venerdì prossimo il pubblico ministero conferirà al medico legale l’incarico di eseguire l’autopsia sul corpo di Mohamed. Sarà, infatti, l’esame autoptico a stabilire se a causare la morte sia stata qualche patologia pregressa o “semplicemente” le condizioni disumane cui i braccianti stranieri sono quotidianamente sottoposti, con turni massacranti fino a dodici ore, senza pause e senza il rispetto delle norme sulla sicurezza sul lavoro.

Altre contestazioni potrebbero aggiungersi, quindi, con lo sviluppo delle indagini, al reato di omicidio colposo: dalla violazione delle norme previste nella legge sul caporalato, allo sfruttamento dei lavoratori. Secondo i primi accertamenti eseguiti, ancora al vaglio della magistratura, la vittima era impiegata nella raccolta nei campi con un compenso di pochi euro all’ora.

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Fonte: Cronache di ordinario razzismo

Autore: redazione Cronache di ordinario razzismo

Licenza: Licenza Creative Commons
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Articolo tratto interamente da Cronache di ordinario razzismo  

3 commenti:

  1. Nel lavoro lo sfruttamento non ha colore, ha sapore, un sapore molto amaro...

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  2. che schifo!!! Purtroppo, qui al sud è tutto cosi. Pochi soldi, tanto ore di lavoro (soprattutto nero) e sfruttamento a non finire si dovrebbero infliggere pene ancora più dure. a presto

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  3. Non ci sono parole, povero ragazzo.

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