Articolo da Il Corsaro - l'altra informazione
Di qualche giorno fa l’agghiacciante notizia della sentenza che assolve un gruppo di sei ragazzi dall’accusa di “stupro di gruppo”, una violenza avvenuta sette anni fa a Firenze nei pressi di Fortezza da Basso nei confronti di una ragazza allora ventitreenne.
Di qualche giorno fa l’agghiacciante notizia della sentenza che assolve un gruppo di sei ragazzi dall’accusa di “stupro di gruppo”, una violenza avvenuta sette anni fa a Firenze nei pressi di Fortezza da Basso nei confronti di una ragazza allora ventitreenne.
Una sentenza vergognosa, che andrebbe letta ad alta voce per scandire ogni frase
che trasforma il capo d’accusa nei confronti degli stupratori in capo
d’accusa nei confronti della vittima: si parla di “vita non lineare” in
quanto la ragazza “ha avuto due rapporti occasionali, un rapporto di
convivenza e uno omosessuale”, si parla inoltre di “iniziativa di gruppo
comunque non ostacolata” in quanto si presuppone che i ragazzi possano
aver “mal interpretato” la disponibilità della ragazza, me che poi non
vi sia stata “alcuna cesura apprezzabile tra il precedente consenso e
il presunto dissenso della ragazza, che era poi rimasta ‘in balia’ del
gruppo”.
Qualche giorno fa la ragazza vittima della violenza ha
scritto pubblicamente una lettera che è un vero e proprio manifesto di
lotta, di una donna sola contro una sentenza che la umilia oltre ad
essere ingiusta.
In un passaggio fondamentale della lettera (qui la versione integrale) la ragazza dice:
“Ebbene sì, se per essere creduta e credibile come
vittima di uno stupro non bastano referti medici, psichiatrici, mille
testimonianze oltre alla tua, le prove del dna, ma conta solo il numero
di persone con cui sei andata a letto prima che succedesse, o che tipo
di biancheria porti, se usi i tacchi, se hai mai baciato una ragazza, se
giri film o fai teatro, se hai fatto della body art, se non sei un tipo
casa e chiesa e non ti periti di scendere in piazza e lottare per i
tuoi diritti, se insomma sei una donna non conforme, non puoi essere
creduta. Dato che non hai passato gli anni dell’adolescenza e della
giovinezza in ginocchio sui ceci con la gonna alle caviglie e lo sguardo
basso, cosa vuoi aspettarti, che qualcuno creda a te, vittima di
violenza?”
Sembra di essere tornati nel 1979, al documentario “Processo per stupro”
di Loredana Rotondo, nel quale l’avvocatessa della vittima (una ragazza
di nome Fiorella) in una passaggio molto profondo dell’arringa afferma:
“E questa è una prassi costante: il processo alla
donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa
così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene
trasformata in un'imputata, solo così si ottiene che non si facciano
denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo
me è umiliare venire qui a dire «non è una puttana». Una donna ha il
diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non
sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l'accusatore di un certo
modo di fare processi per violenza. [...]”
Dal 1979 sono passati 36 anni e, a differenza di allora, il
processo di Fortezza da Basso si chiude con una sentenza di assoluzione
nei confronti degli stupratori, con delle motivazioni intrise di quel
moralismo e maschilismo che l’avvocatessa di “Processo per stupro”
denunciava per la prima volta, in un documentario televisivo seguito
allora da circa tre milioni di telespettatori.
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Fonte: Il Corsaro - l'altra informazione
Autore: Elena Monticelli
Licenza:
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.
Articolo tratto interamente da Il Corsaro - l'altra informazione
Photo credit Sailko (Opera propria) [CC BY-SA 3.0], attraverso Wikimedia Commons
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