Articolo da Diritto di critica
La tragedia, i soccorsi, l’oblio. L’Italia dei terremoti ha la memoria corta e una solidarietà grande: sul momento si mobilitano colonne, mezzi e volontari. Ma passata l’emergenza, non appena le telecamere si allontanano, distratte magari da una qualche altra calamità o evento negativo, tutto cade nel dimenticatoio. E’ successo all’Aquila, in Umbria e nelle Marche, nel Belice e nell’Irpinia. Si spera non accada in Emilia
Per il terremoto del Belice – avvenuto nel 1968 – fino a qualche anno fa c’erano ancora cittadini costretti a vivere in un container, vere e proprie “generazioni container” nate e cresciute tra quattro lamiere. E lo stesso accadde in Irpinia con il terremoto del 23 novembre 1980: piazzole puntellate di prefabbricati che avrebbero dovuto essere provvisori, durati oltre trent’anni.
Non fanno eccezione nemmeno l’Umbria e le Marche: lo scorso anno a Giove, in Valtopina, provincia di Perugia, a 14 anni dal terremoto c’erano ancora famiglie che abitavano nei container, tra ditte che avrebbero dovuto occuparsi della ricostruzione e invece sono fallite e l’intero borgo sequestrato dalla Guardia di Finanza. Negli anni scorsi, di 75 persone che avevano trovato rifugio nei container, 25 sono morte nell’attesa di rientrare nelle loro case.
Il caso più recente è quello dell’Aquila e di borghi come Onna (nella foto), Tempèra o San Gregorio, distrutti dal terremoto del 6 aprile 2009. Qui gli sfollati hanno trovato rifugio prima nelle tendopoli poi nel Progetto C.A.S.E. (sono sorte ben 19 città attorno al capoluogo) o nei Moduli abitativi provvisori (MAP, le casette di legno). Di loro e di come sia cambiata la vita dopo il 6 aprile 2009 non si parla né si scrive quasi più sui media nazionali. Menchemeno si fa riferimento alla tanto decantata ricostruzione. A parte poche eccezioni: è tutto fermo. Tra i pochi segni di attenzione esterna, il laboratorio di Giornalismo curato da 4media per i ragazzi onnesi e aquilani e le giornate organizzate da Aicem per i bambini dell’asilo di Onna. A mancare, però, nel contesto aquilano è la vita quotidiana, ridotta alle cosidette “vasche” in centro storico al sabato sera o al ritrovarsi presso il Centro Commerciale.
Per non citare le forze dell’ordine inviate a disperdere la manifestazione degli aquilani a Roma, con i manganelli che calavano violenti sui manifestanti. Con una via del Corso presidiatissima e i Parlamento inaccessibile. In quell’occasione chi scrive ascoltò l’urlo di un automobilista: “aridatece i soldi che v’abbiamo prestato!”. E se è vero che la madre degli stupidi è sempre incinta, quel grido era ed è sintomo di un Paese che – archiviata l’emergenza – dimentica, volta pagina e spesso smette di capire. Mentre chi resta deve fare i conti con il silenzio, l’oblio e una vita quotidiana stravolta.
Twitter@emilioftorsello
Fonte: Diritto di critica
Autore: Emilio Fabio Torsello
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Articolo tratto interamente da Diritto di critica
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Purtroppo è tutto vero.
RispondiEliminaLe disgrazie se le cuccano solo chi le subisce, nonostante la solidarietà di gente comune...
Speriamo si spezzi questa catena ingiusta. Per l'Emilia ma anche per le tragedie precedenti.
RispondiEliminaL'Aquila e il Belice sono esempi di vergogne incredibili a carico dei pubblici poteri.
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