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mercoledì 15 ottobre 2025

La crisi della casa: come siamo arrivati fin qui?



Articolo da Collettivo Le Gauche

In Italia si è venuta a creare una frattura tra l’andamento dei salari e quello dei costi abitativi. I salari reali sono diminuiti dal 1990 a oggi mentre i prezzi delle case sono esplosi, innescati da un processo di finanziarizzazione del mercato immobiliare partito negli anni ‘90. Sarah Gainsforth in L’Italia senza casa. Politiche abitative per non morire di rendita sostiene che la casa ha progressivamente smarrito la sua funzione di bene d’uso per diventare un bene di scambio e uno strumento di investimento finanziario, slegato dall’economia reale e dal bisogno abitativo concreto. Questo spostamento è alla base del paradosso per cui, nonostante un calo demografico e un alto numero di case vuote (quasi 10 milioni, il 27,2% del patrimonio, secondo l’Istat), l’accesso alla casa sia diventato proibitivo. Il mercato è sempre più dominato da logiche speculative, dove circa il 60% delle compravendite avviene senza mutuo, spesso per l’acquisto di seconde case o come investimento, concentrando il valore immobiliare in mani sempre più ristrette. Parallelamente è radicalmente mutato il ruolo delle politiche pubbliche. Si è passati da una fase di intervento diretto keynesiano, simboleggiato dalle case Fanfani, cioè case popolari costruite per i meno abbienti in un’epoca in cui essere poveri non era una colpa, a un progressivo abbandono di qualsiasi politica abitativa che non fosse un sussidio all’affitto nel mercato privato ormai liberalizzato. Questo abbandono risponde ad una precisa strategia politica per sostenere la finanziarizzazione dell’economia attraverso la crescita artificiale dei valori immobiliari. Lo Stato ha smesso di costruire e ha iniziato a vendere il proprio patrimonio residenziale e i suoli pubblici, privandosi così dell’unico strumento per calmierare il mercato e, anzi, contribuendo attivamente a processi di gentrificazione. Politiche urbane basate sul marketing territoriale e sull’attrazione di turisti e capitali privati hanno completato l’opera, trasformando centri storici in “ghetti turistici” in mano ad Airbnb, spogliati del loro tessuto sociale originario. Le conseguenze di questa doppia dinamica sono devastanti e si ripercuotono su tutta la società. Il 67,4% dei giovani tra i 18 e i 34 anni vive con i genitori mentre gli studenti fuorisede sono costretti a destinare gran parte del loro budget a stanze inadeguate sul mercato privato a causa di una carenza cronica di alloggi pubblici (solo il 5% del fabbisogno contro una media Ue del 17%), minando il diritto allo studio. Anche i giovani lavoratori, spesso precari, si stima il 41% degli under 35, e con salari bassi non riescono ad accedere a un’abitazione autonoma, ritardando o rinunciando a formare una famiglia. La questione abitativa, inoltre, non è più un problema confinato alle fasce più povere della popolazione essendo un freno allo sviluppo che riguarda l’intera economia nazionale e la forma stessa delle nostre città. L’inaccessibilità degli alloggi centrali limita la mobilità per studio e lavoro, costringe a lunghi e stressanti spostamenti pendolari, aumenta l’inquinamento e il consumo di suolo e dissipa le chances di sviluppo territoriale perché gli eventuali aumenti salariali vengono assorbiti dai costi abitativi, finendo nelle tasche dei proprietari. Le città non sono più in grado di trattenere i giovani e i lavoratori, come dimostra l’emigrazione all’estero, triplicata in dieci anni e ora partente anche dal Nord Italia. In assenza di politiche redistributive la casa è diventata un potente strumento di accumulazione di vantaggi per pochi e di svantaggi per molti, erodendo quel patto sociale che garantiva, attraverso il lavoro, la possibilità di una vita dignitosa e di progettare un futuro.

1. Come siamo diventati proprietari 

La gestione della povertà e della questione abitativa a partire dall’età moderna si è strutturata attorno a un criterio fondamentale: il nesso inscindibile con il lavoro, dove l’abilità o l’inabilità al lavoro fungeva da discrimine per distinguere i poveri “veri”, meritevoli di assistenza, dai “falsi”. Nell’Ottocento questa gestione assunse una connotazione urbana e di ordine pubblico, percependo la miseria come un problema di decoro da affrontare attraverso politiche di segregazione, isolamento, internamenti, espulsioni e un ferreo controllo poliziesco sulla mobilità. Con il volgere del secolo i processi di industrializzazione introdussero un elemento nuovo, al tradizionale strato di poveri si aggiunse e si sovrappose gradualmente un nuovo proletariato urbano, impiegato inizialmente in maniera stagionale nelle fabbriche. Questa massa di indigenti, funzionale come “serbatoio di manodopera flessibile” allo sviluppo del mercato capitalistico, finì però per generare effetti collaterali insostenibili per le città, come la diffusione di epidemie di colera e tifo e un pesante inquinamento ambientale, spingendo così i primi e necessari interventi in campo sanitario e urbanistico. È in questa fase che nasce l’esigenza di un apparato sociale in grado di correggere gli effetti più destabilizzanti del nascente sistema industriale.

Le risposte alla miseria urbana continuarono, come in passato, a includere sventramenti e demolizioni dei quartieri più insalubri ma si affiancarono anche le prime opere di urbanizzazione e la realizzazione di servizi igienici collettivi fondamentali, come acquedotti e fognature. Questa urbanizzazione legata all’industrializzazione pose con forza una nuova “questione sociale” che avrebbe motivato le riforme culminate nella nascita del moderno Stato sociale. In Italia, significativamente, questo processo avvenne con i primi provvedimenti di regolamentazione del lavoro. Il nuovo apparato assistenziale si organizzò ancora una volta intorno al lavoro, assumendo un carattere accentrato e differenziato per categorie professionali, un tratto distintivo del welfare italiano, corporativistico, frammentato e familistico. Il lavoro divenne così il principale strumento per selezionare i destinatari delle misure sociali, necessarie sia per mitigare gli effetti del capitalismo industriale sia per controllare le masse popolari. Inizialmente l’assistenza riguardò solo i lavoratori stabili delle grandi concentrazioni industriali, emarginando quelli occasionali e stagionali, una distinzione che si rifletté anche sulla geografia urbana, con quartieri che ospitavano diverse categorie sociali. Nella seconda metà dell’Ottocento, nell’Italia settentrionale, l’assistenza privata rispose alle nuove povertà “industriali” principalmente attraverso due modelli: il paternalismo aziendale e il mutualismo. Il primo vide gli imprenditori farsi carico della costruzione di interi villaggi operai e di infrastrutture come scuole e abitazioni, esercitando un controllo sociale che si estendeva anche al tempo libero dei lavoratori. In contemporanea si svilupparono le organizzazioni mutualistiche, le società di mutuo soccorso che offrivano assicurazioni, sussidi e costruivano case operaie per i propri iscritti, appartenenti a precisi settori produttivi. Anche le cooperative edilizie, assumendo un carattere più marcatamente operaio, svolsero un ruolo rilevante nel risanamento urbano, collaborando con le amministrazioni municipali per dare risposte abitative ai ceti subalterni. Il loro intervento rimase marginale nel panorama edilizio nazionale e finì, come il mercato immobiliare privato che si rivolgeva al ceto medio-alto, per favorire principalmente le aristocrazie operaie e la piccola borghesia impiegatizia, relegando i ceti popolari nelle aree più degradate e sovraffollate delle città.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’Italia conobbe un miglioramento delle condizioni di vita e una riduzione della povertà assoluta, anche grazie al superamento dei più urgenti problemi igienico-sanitari. Nel 1903 fu approvata la prima legge organica sulla casa, la legge Luzzatti, pensata per agevolare specificamente la classe operaia attraverso la costruzione di alloggi da parte di comuni e cooperative, finanziati a condizioni agevolate da banche e società di mutuo soccorso. Il tema della casa veniva così affrontato esplicitamente in relazione al lavoro e alla produttività, con l’obiettivo di sostenere un sistema industriale che necessitava di una forza lavoro stabile. Entro il 1908 molte città si dotarono di un Istituto autonomo per le case popolari (Iacp) e, con i successivi codici del 1908 e del 1919, ai comuni fu assegnato il compito di costruire le infrastrutture per le nuove abitazioni, introducendo anche sgravi fiscali per alcune categorie di lavoratori disagiati. Il regime fascista ereditò e consolidò questo nascente Stato sociale, trasformandolo in uno strumento di consenso e di controllo e accentuandone i caratteri corporativi, frammentari e clientelari. Il paternalismo aziendale conobbe una rinnovata espansione con la costruzione di case e quartieri per operai. Il regime istituì un sistema di protezione per i dipendenti pubblici, mantenne in parte quello per i lavoratori dell’industria ma abbandonò sostanzialmente i lavoratori agricoli. La contemporanea promozione della “ruralità” servì più che altro a contrastare, per motivi politici ed economici legati all’autarchia, l’espansione urbana e della cultura industriale. L’obiettivo era di allontanare poveri e disoccupati dalle città, come avvenne a Roma con gli sventramenti del centro storico e la costruzione di borgate periferiche, preferendo investire in opere monumentali e nel dopolavoro per controllare i lavoratori piuttosto che in servizi e infrastrutture. Nonostante le misure punitive, come la legge contro l’urbanesimo, il regime fallì nell’arrestare il processo di urbanizzazione che proseguì anche attraverso l’edilizia abusiva e baraccata ai margini delle città. Il vero spartiacque nella storia delle politiche abitative italiane fu il secondo dopoguerra. Il regime fascista aveva rimosso il problema della povertà e solo nel 1951 una commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria ne rivelò le dimensioni drammatiche. I dati, pubblicati nel 1953 e integrati dal censimento del 1951, dipingevano un quadro allarmante: 47 milioni di persone in poco più di 11 milioni di abitazioni, 220.000 famiglie che vivevano in baracche, grotte o locali di fortuna, il 60% della popolazione in case sovraffollate (con il 20% del Mezzogiorno che viveva con sei persone per stanza) e solo il 7% delle abitazioni dotato di acqua potabile e bagno. Il fabbisogno di abitazioni era stimato in circa dieci milioni di stanze. In risposta a questa emergenza, e sull’onda della strategia già applicata con successo nella riforma agraria (che aveva espropriato 700.000 ettari e creato 100.000 piccoli proprietari), fu varato il Piano Ina-Casa nel 1949. Ideato dal ministro democristiano Amintore Fanfani, il Piano aveva come obiettivi rilanciare l’occupazione nel settore edile come alternativa ai sussidi di disoccupazione e soddisfare i bisogni abitativi della popolazione immigrata nelle città. Il Piano fu finanziato principalmente attraverso prelievi obbligatori sulle retribuzioni di tutti i lavoratori dipendenti non agricoli e dei datori di lavoro, integrati da un contributo statale. Tra il 1949 e il 1963, nel corso dei due settennati di attività, il Piano realizzò 355.000 alloggi, diede occupazione stabile a oltre 40.000 operai edili l’anno e coinvolse circa un terzo dei 17.000 architetti e ingegneri italiani allora attivi. La sua incidenza sul totale nazionale delle abitazioni costruite fu del 10%, con punte del 18,5% in Calabria. Nonostante limiti come la localizzazione periferica e isolata di molti quartieri e la mancata attivazione di servizi previsti, il Piano Ina-Casa rappresentò il primo esperimento di welfare urbano su vasta scala in Italia, mostrando un’attenzione inedita alla dimensione sociale dell’abitare. I risultati quantitativi furono notevoli visto che a pieno regime si realizzavano 2.800 alloggi a settimana, assegnandoli a famiglie di cui il 37,8% proveniva da condizioni estreme come cantine e grotte. L’aspetto più duraturo e caratterizzante del Piano, e delle successive politiche abitative italiane, emerse nel dibattito parlamentare che ne accompagnò l’approvazione: la scelta di promuovere sistematicamente la proprietà della casa. Il disegno di legge originale prevedeva l’assegnazione in proprietà per tutti gli alloggi, attraverso un sorteggio che la stampa ribattezzò “totocasa”. Questo orientamento affondava le radici nella cultura della Democrazia cristiana, sintetizzata nello slogan “non tutti proletari ma tutti proprietari”, e trovò un riscontro formale nell’articolo 47 della Costituzione che non sancisce un diritto alla casa ma impegna la Repubblica a “favorire l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione”. Il dibattito in Parlamento, analizzato dallo storico Bruno Bonomo, modificò parzialmente la proposta iniziale, stabilendo che solo metà degli alloggi sarebbe stata assegnata in proprietà e l’altra metà in locazione, sostituendo il sorteggio con una graduatoria. In quell’occasione voci critiche, come i senatori comunisti Paolo Fortunati e Carlo Cerruti e il deputato socialista Fernando Santi, sollevarono obiezioni fondamentali. Santi definì la “proprietà forzata” un “pietra al collo” per il lavoratore che lo indebitava per venticinque anni e ne limitava la libertà. Fortunati e Cerruti misero in guardia dai rischi di equità: una politica che cede la proprietà, finanziata dalla collettività, cristallizza il vantaggio in modo perpetuo, togliendo l’alloggio dal patrimonio sociale e impedendo di riallocarlo in base al bisogno futuro, a beneficio non dei più miseri ma di chi già possiede una certa stabilità economica. Nonostante queste lucide critiche la spinta verso la proprietà prevalse e si radicò. Nei fatti quasi il 70% delle case Ina-Casa fu concesso a riscatto. Questo approccio fu rafforzato da altre leggi degli anni ‘50, come la Tupini e la Aldisio, che estesero generose agevolazioni fiscali e mutui agevolati non solo all’edilizia popolare pubblica ma anche a cooperative e società private senza scopo di lucro, di fatto orientando i contributi pubblici verso i ceti medi, il nerbo del consenso democristiano. Si avviò così un processo di progressiva erosione del patrimonio pubblico. Già a partire dal 1950, con proposte di vendita degli alloggi degli enti pubblici come l’Incis, il numero di case che usciva dal patrimonio pubblico superò quello che vi entrava con le nuove costruzioni. Si stima che tra il 1951 e il 1970 siano stati privatizzati circa 850.000 alloggi di edilizia sociale, più dei 355.000 costruiti dal Piano Ina-Casa. Questa scelta di fondo trasformò la politica edilizia in uno strumento di “mobilitazione individualistica”, come rilevato dall’urbanista Bernardo Secchi riprendendo il sociologo Alessandro Pizzorno, ovvero una strategia che utilizzava le disuguaglianze stesse come incentivo all’adesione al sistema, promettendo a ciascuno la possibilità di diventare proprietario e di beneficiare della valorizzazione del proprio immobile. Gli anni ‘50 si chiusero con un mutamento di prospettiva: l’attenzione si spostò dalla povertà alla condizione operaia e i poveri stessi cessarono di essere visti come un gruppo il cui consenso valesse la pena conquistare. Le politiche abitative continuarono a essere rivolte a chi era già in condizione di accedere alla proprietà, sostenendo i consumi domestici e contribuendo al miracolo economico. Ci si affidò, anche nelle intenzioni delle sinistre, alla teoria quantitativa e del filtering, secondo cui costruire case per i ceti medi avrebbe innescato una catena di mobilità abitativa che, per tracimazione, avrebbe risolto indirettamente anche i problemi dei ceti più bassi. In realtà questa teoria si rivelò fallace, generando invece eccedenze in alcuni segmenti di mercato e acuendo il problema per i più poveri, oltre a gettare le basi per lo “spreco edilizio” e l’eccessivo consumo di suolo. Il risultato finale di questa lunga e coerente traiettoria storica è un paese con una quota di proprietari divenuta maggioritaria grazie agli incentivi pubblici ma dove, una volta venute meno quelle politiche, è cresciuta una vasta platea di esclusi che non può accedere alla proprietà e non dispone di un parco abitativo pubblico in locazione sufficiente e accessibile.

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Fonte: Collettivo Le Gauche

Autore: Collettivo Le Gauche

Licenza: This work is licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International

Articolo tratto interamente da Collettivo Le Gauche


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