Articolo da Effimera
Il 13 gennaio 2025 è mancato Franco Piperno, uno dei protagonisti delle lotte che hanno attraversato l’Italia a partire dal’68 sino ai più recenti movimenti. Ex leader di Potere Operaio, ha vissuto la repressione politica dei tardi anni Settanta, spostandosi prima in Francia e poi in Canada, dove ha insegnato astrofisica in diverse università per poi tornare in Calabria, a Cosenza. Studioso delle trasformazioni del capitalismo, delle possibilità di sovversione e dei problemi della metropoli e del meridione, grande fisico. Effimera lo vuole ricordare riprendendo due scritti e due video
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Sul lavoro non operaio
Il primo contributo è tratto dal Pre-print 1/4 supplemento alla rivista Metropolis (i cui articoli sono stati oggetto di accuse di terrorismo nel processo 7 aprile 1979) “L’autonomia possibile”, intitolato “Sul lavoro non operaio”.
Autonomia possibile, valori d’uso, lavoro non operaio[1] – di Franco Piperno
Chiamiamo autonomia la forma politica dentro cui si esprime e cresce il movimento del lavoro non-operaio. Si intende per lavoro non-operaio sia il lavoro indirettamente produttivo, sia il lavoro produttivo le cui prestazioni prescindono dalla modificazione – più o meno meccanizzata – della merce.
Questo segmento di forza-lavoro si caratterizza per essere la
materiale articolazione dell’«intelletto generale» nel senso che solo a
partire dalla sua presenza dentro il flusso produttivo allargato, il
lavoro vivo assume la forma di attività generalmente e compiutamente
sociale, attività in sé conclusa, che non ha bisogno di alcun «fattore
esterno» per dispiegare nella sua interezza la potenza del lavoro come
allargamento indefinito della ricchezza o, se si vuole, del processo di
riproduzione sociale.
In questo senso, il lavoro non-operaio – nel suo congiungersi al lavoro
operaio, continuamente innovandolo e riducendolo – dà al lavoro sociale
una dimensione di attività autonoma già dentro il processo di
riproduzione capitalistico.
(…)
L’aspetto più significativo, a livello di rapporti di produzione, è quello di riappropriazione da parte del lavoro vivo della «potenza» e della «socialità» con cui il capitale – in quanto soggetto di «scienza» – si presenta dentro il processo di produzione e riproduzione sociale.
(…)
In altri termini: il passaggio tendenziale, rilevabile empiricamente, al livello del processo produttivo moderno, del lavoratore come erogatore di fatica (tempo di lavoro) in «sorvegliante e regolatore» tecnico, fonda la possibilità di un’autonomizzazione del processo produttivo rispetto al processo di valorizzazione – proprio perché si dà un’unità fra lavoro e coordinamento del lavoro, materialmente realizzata dal massiccio ingresso, nella produzione sociale, del lavoro non-operaio come segmento crescente della forza-lavoro. Come ognuno vede, la tendenza sopra delineata è operante in tutta l’area del capitalismo maturo.
La specificità della situazione italiana sta invece nell’anticipo con cui il lavoro non-operaio ha imposto se stesso, come interno alla composizione di classe operaia storicamente data, prima ancora che lo sviluppo delle forze produttive dentro la sezione italiana di capitale fondasse l’oggettiva possibilità dell’internità stessa.
L’intelletto generale, vivo, vuole vivere – sia pure di vita fragile e inquieta – dentro il lavoro vivo.
La pratica del rifiuto del lavoro ricompone il «sapere sociale» frantumato
Diverse sono le ragioni che hanno provocato questo anticipo (che ha
giocato e gioca come fattore “principe” nella destrutturazione
dell’assetto di capitale in Italia).
Impossibile, in questa sede, elencarle tutte. Basterà ricordare il ruolo
decisivo svolto dal ’68 – e più specificatamente la diffusione e la
continuità con cui l’esperienza del ’68 è penetrata in questi dieci anni
nei comparti del lavoro sociale diversi dalla fabbrica. Mette conto
delineare brevemente quale conseguenza – in termini di rapporti di forza
fra le classi dentro la produzione sociale – comporti questo
rovesciamento anticipato per cui la delega del dominio all’intelletto
generale, volta ad assicurare il carattere molecolare del processo di
valorizzazione, funziona all’inverso, ricomponendo sulla base del sapere
sociale accumulato tutta l’intelligenza produttiva del lavoro vivo
contro le condizioni di produzione. A partire dal ’70, sia pure con
ritmo ineguale, pieno di pause, arretramenti e cadute improvvise (valga
per tutti la paralisi del movimento nei mesi successivi alla rivoluzione
dei prezzi petroliferi) gli elementi di rigidità introdotti dalle lotte
hanno inceppato e poi scardinato il mercato del lavoro.
(…)
È così sotto gli occhi di tutti la diminuzione drastica dell’orario di lavoro effettivo rispetto a quello ufficiale (per via di assenteismo, pause più o meno concordate, rigida attinenza alla mansione e alla collocazione anche fisica), e l’aumento vertiginoso del doppio lavoro, soprattutto come «part-time».
Si badi: il fenomeno odierno non ha alcuna analogia con quello – di proporzioni raffrontabili – degli anni Cinquanta.
Lì infatti il secondo lavoro si presentava come del tutto annesso alla
dinamica della produzione di plusvalore (assoluto in primo luogo). Si
trattava allora di prolungamento della giornata lavorativa strettamente
intesa, in cui – stanti i livelli della produttività sociale dell’Italia
post-bellica, nonché i rapporti di forza fra le classi – il doppio
lavoro era dilatazione del «tempo immediato di lavoro» – perché il
rapporto di lavoro necessario-pluslavoro si desse nelle proporzioni
richieste dall’accumulazione capitalistica.
Insomma: il doppio lavoro veniva vissuto da parte operaia come lavoro
necessario, mera occasione di sopravvivenza, costrizione imposta dal
nemico sociale.
(…)
Assai diversa è la situazione presente: qui siamo di fronte a una riproduzione «garantita» ottenuta tramite una pratica sociale di rifiuto del lavoro, che per estensione e profondità è senza precedenti nell’Occidente capitalistico. Questo è un passaggio decisivo, il cui possesso è indispensabile per la comprensione della situazione di classe in Italia.
Nuova socialità della cooperazione lavorativa
Quando, infatti, si insiste, nel rappresentare la congiuntura italiana, sugli elementi di rapina che la forma di produzione della «fabbrica diffusa» comporta; quando il doppio lavoro appare come mera estensione di sfruttamento, rastrellamento «sordidamente giudaico», negli interstizi della società – ecco che vengono a essere rimosse proprio le caratteristiche soggettive, di parte operaia, che storicamente hanno determinato, in qualche modo, in avanti le condizioni di produttività date.
(…)
Giacché, come è possibile non vedere che se elemento fondante del recente e massiccio allargamento del «part-time» del lavoro a domicilio è stata la lotta al lavoro produttivo da parte dell’operaio massa, la formazione stessa ha avuto tuttavia luogo dentro «l’incessante trasformazione della natura dell’industria» – anzi addirittura come ulteriore sollecitazione della stessa?
Qui non si tratta di una regressione nella forma della cooperazione sociale, di un ritorno a forme che precedono la manifattura (humus desiderato del rivoluzionarismo protocomunista italiano che, giustamente, vede il proprio possibile successo affidato alla «infinita potenza» della povertà, al regresso, alla barbarie).
Il lavoro a domicilio di cui si sta discutendo è sempre organizzato dalla grande impresa sulla scala della cooperazione sociale – e richiede quindi un ulteriore salto in avanti nei processi di automazione nonché nell’integrazione fabbrica-società. Il lamento sulla contrazione del «fattore di scala» che comporterebbe il passaggio dalla fabbrica, come luogo murario del ciclo lavorativo, allo «sminuzzamento» dello stesso ciclo nel lavoro a domicilio, non tiene conto della circostanza che questa disseminazione è solo decentralizzazione fisica – essa avviene infatti forzando il carattere organico della cooperazione lavorativa e materializzando comando e coordinamento dentro la tecnologia dell’automazione; così la divisione del lavoro procede nella sua sussunzione assolutamente classica, progressiva, delle forze produttive e in primo luogo dei comportamenti della forza-lavoro, rovesciando le difficoltà politiche in un allargamento assoluto del processo di valorizzazione, e per questa via potenziando il lavoro sociale come base materiale della ricchezza.
(…)
Una critica al concetto di «emarginazione»
Intanto, diciamo subito che non c’è «emarginazione», disoccupazione e repressione nel senso forte che questi termini hanno nella storia delle relazioni industriali.
La raffigurazione del Paese in preda alla miseria crescente e
alla ferocia dei nuovi e vecchi governanti, anche quando appaiono sui
fogli dei radicals nostrani, sono pure idiozie: gravi solo perché
testimoniano quanto separato, ottuso, inutilmente soddisfatto di sé sia
quello «spicchio» di cielo della politica che appartiene ai nostri
compagni rivoluzionari di ruolo e ai loro «compagni di strada» –
posseduti da «delirio repressivo». Sopravvivono perché
«controreazionandosi» a vicenda la paura delle proprie paure, coltivano
la «volontà d’impotenza», l’orrore per la vittoria e il successo come
materialità che si impone. Non si vuole con ciò negare che esista in
Italia la logica del mondo «altro dalla ricchezza»: marginalità,
disoccupazione, repressione non vogliono morire, si nutrono di lavoro
vivo e sopravvivono come possono.
Ma tutto questo è banale – vuol dire ripetere ossessivamente una verità
vuota: il carattere contraddittorio del «progresso» capitalistico, il
suo continuo mortificare e distruggere la «vita possibile» dei
produttori come riaffermazione delle proprie condizioni di sviluppo. Ma
il punto decisivo è oltre il banale. Come dire: oltre Seveso.
Di chi è l’iniziativa che attraversa e sommuove, ormai pressoché ininterrottamente da dieci anni, tutto il tessuto produttivo? O, se si vuole: come si è andata configurando, nel rapporto fra le classi, la distribuzione della ricchezza in Italia? Quale soggetto è andato affermando il proprio diritto come «diritto nuovo» alla garanzia, all’automatismo della riproduzione senza accettare condizioni sul versante dell’interesse generale – ovvero della produttività sociale intesa come incremento del valore realizzato «pro capite»? Tutta la pubblicistica e la letteratura corrente danno una risposta inequivocabile.
La vita quotidiana si incarica da parte sua di «zittire il lamento delle statistiche», facendo penetrare nella testa dei singoli questa «sicurezza bella» del diritto automatico alla vita come diritto imposto.
Per capire questo generale sommovimento non basta tenere d’occhio gli indici «classici» della scienza economica; il quadro si è fatto più complesso e ricco di variabili sconosciute.
Vediamo la cosa da più vicino. Si dice: oltre due milioni di disoccupati, soprattutto giovani. Reinnescato dal «ritardo semantico» delle parole un «pianto costernato» inonda i fogli progressisti e «rivoluzionari». A prendere sul serio i termini (che informano perché richiamano analogia) ci sarebbe da aspettarsi che due milioni di persone vivano nell’indigenza, e una percentuale così cospicua (diciamo centomila) sia prossima all’inedia. Come ognuno può vedere si tratta di una rappresentazione distorta dell’uso di vecchie parole per denotare fatti nuovi.
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Fonte: Effimera
Autore: Effimera
Licenza: Copyleft
Articolo tratto interamente da Effimera
Photo credit Marta, Lorenza e Vincenzo Iaconianni, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons
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