sabato 5 marzo 2022

Oggi ricorre il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini



Articolo da la Sinistra quotidiana

Oggi ricorre il centenario della nascita di un uomo che guardò la vita dal basso verso l’alto, ma non per cospargersi il capo di cenere, per farsi umile davanti a chissà quale peccato proprio o dell’umanità. Lo fece per capire cosa si provava ad essere accattoni di una quotidianità dove la sopravvivenza era una guerra permanente contro la prepotenza dei ricchi, di quelli che, svolgendo il loro ruolo di classe, dovevano e devono accumulare soldi, azioni, fare investimenti, comperare fabbriche e farci lavorare quelli che non sarebbero diventati e non diventeranno mai ricchi con il proprio lavoro.

Ventre a terra, Pier Paolo Pasolini osservò il mondo delle baracche, dal fango delle periferie dei brutti, sporchi e pure cattivi, per alzarsi a poco a poco e far alzare con lui tutti quelli che ne avevano capito lo spirito ribelle, l’entusiasmo per quella voglia di riprendersi il piacere di vivere e non subirne la sopportazione. Dalla nascita e la crescita nel pieno della dittatura fascista, era passato alla democrazia e alla libertà, senza darle mai per scontate e senza illudersi che potessero farsi così largo tra le spire del capitale da imporsi come modelli etici e pratici per una nuova esistenza di popolo e di ogni singolo individuo.

Le guerre del suo presente PPP le vide tutte quante e le scrutò a fondo, entrando nelle perversioni delle brutture, negli attorcigliamenti delle contraddizioni che, mescolatesi così tanto fra loro, non riuscivano nemmeno più a riconoscersi, finendo per creare delle mutazioni genetiche cui il perbenismo, fra i tanti uguali e contrari della benevola coscienza umana, offriva nuovi rifugi promettendo di proporre nuovi orizzonti proprio ai proletari infreddoliti e frastornati dai conflitti intercontinentali congelati per evitare la terza guerra mondiale al mondo, ma in realtà mascheramento distensivo di un riposizionamento economico, militare, politico e certamente culturale delle due grandi potenze di allora.

Lo sguardo di Pasolini non separò mai il particolare dall’universale: non classificò mai l’importanza dei problemi sociali e non fece nessuna top ten dei temi che prima di tutto l’intelligenza, il pensiero, la critica, la settima arte, la poesia, le lettere e persino la politica dovevano mettere al centro della loro azione naturale, servendosi di tutte quelle specificità che poi, quasi naturalmente, definiscono un quadro completo dell’esistente, dell’esistere, di un galleggiare sui molli fianchi dei giganti dopo esserne scivolati dalle spalle.

Ma sapere dell’enormità delle grandi questioni del suo tempo, non costrinse Pasolini a rifugiarsi nel “male di vivere“, nel pessimismo malinconicamente depresso di un Novecento che si andava avviando verso nuove spinte rivoluzionarie, verso un bel portato di enfatizzazione delle idee non sempre corroborato da un impegno a ridurre le speculazioni fini a sé stesse per rimboccarsi le maniche e provare a concretizzare quei tre, quattro dettami veramente capovolgitori di una società defraudata di sé stessa e piegata alle coordinate bancarie e ai dividendi dei grandi gruppi industriali.

Il rapporto che ebbe con la ricerca del senso della vita fu a tratti altamente laico e materialista, a tratti consapevolmente trascendentale e religioso ma non per abbracciare questo o quel culto, questa o quella interpretazione terrenamente umana della presunta esistenza di una divinità: Pasolini riusciva a vedere la “sacralità” nella potenza della natura, nella forza delle emozioni, nello sprigionarsi dei sentimenti che si traducevano nella straordinarietà dell’empatia, chiamata ora “amore“, ora “affetto” e che, quasi sempre, lui ritrovava nella sua più nobile espressione nella semplicità proletaria, nella suburbanità delle esistenze dei miserabili, dei reietti scacciati da ogni convivialità, da ogni possibilità di dialogo e di “abbeverarsi a quella luce della vita” di cui avrebbe voluto inebriarsi di più di quanto gli era concesso.

Eppure, di questo straordinario connubio tra mente e cuore, tra corpo e psiche che è stato PPP, si parla troppo poco nella nostra narrazione collettiva, a cominciare dalle scuole: nelle antologie e nei libri dati alle ragazze a ai ragazzi che frequentano soprattutto le scuole superiori, le pagine dedicate a Pasolini sono tre, quattro. Qualche introduzione ad alcune delle sue poesie più note, magari una stringata biografia, ma nessuna definizione dello scrittore, del poeta, del regista e dell’intellettuale che, al pari dei suoi contemporanei presenti abbondantemente nelle trasposizioni compendiali del Novecento letterario italiano.

Probabilmente c’è una coazione a ripetere che non è ancora stata interrotta dal coraggio di qualche insegnante che abbia voglia di sfidare i programmi ministeriali e fare di Pasolini un pari rispetto a Pavese o Calvino, oppure a Levi e Morante, tanto per citare alcuni coevi del Nostro. Il problema sta, essenzialmente, nella trasmissione dell’idea pasoliniana di vita, di società, di relazioni umane e sentimentali: mentre non è difficile rispondere facilmente ai ragazzi che chiedono cosa alla fine Leopardi pensasse della propria e dell’altrui presenza su questa terra, mentre non è poi così complicato parlare schiettamente di Primo Levi e del rapporto con l’orrore nazista del lager e della guerra, è oggettivamente più arduo mettere in pratica una reductio ad unum dello spettro pasoliniano, del suo riflettersi e del suo riflettere sul mondo.

Eppure, a differenza di altri autori, proprio nella scuola di oggi si potrebbero fare lezioni bellissime su Pasolini e sulla società a cavallo tra il dopoguerra e l’inizio di quegli anni ’70 in cui si tendeva – come ha ricordato Dacia Maraini – ad isolare “borghesemente” quel poeta, quel regista, quello scrittore visto dalla classe dirigente del Paese e della vasta caterva di benpensanti che ne era alla corte come un Socrate moderno, un pervertitore di coscienze, un accarezzatore di lussurie innominabili, uno scandalizzante dimostratore del marcio incosciente di tanti che ancora si portavano addosso molto del retaggio delle giornate di Salò, della triste, tetra e malinconica aria lacustre, sospesa nella pianura padana tra l’operosità del triangolo industriale e lo sguardo ad oriente della laguna veneta.

Articolo tratto interamente da la Sinistra quotidiana 


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