C’è un’isola nel Mar Egeo che oggi
rappresenta uno dei simboli del fallimento dell’Unione Europea nella
gestione dei flussi migratori. Il suo nome è Samos,
meta turistica estiva e nota al mondo per aver dato i natali ad Epicuro,
Pitagora, Aristarco ed Escrione. Insieme a Kos, Lesbos e Kios, ha
accolto in questi anni i migranti provenienti dalla Turchia.
Ankara e L’Unione Europea hanno stretto un accordo nel marzo del 2016.
Il patto prevede che i migranti in arrivo dalla Turchia non possano
lasciare le isole su cui giungono se prima non ricevono il via libera
dai centri di registrazione e identificazione lì allestiti. Questo
perché la Turchia ha stabilito che possano far rientro solo i migranti, a
cui è stata rifiutata la protezione, che provengono dalle isole greche e
non chi, ad esempio, è già giunto in Atene. I migranti sono pertanto costretti a restare a Samos finché
qualcuno non assicurerà loro la possibilità di continuare il percorso
verso un luogo in cui si potrà stabilire e vivere senza più temere per
la propria incolumità. I tempi, però, come noto, non sono mai veloci: si
può attendere qualche mese, un anno o anche due se si fa appello in
caso di rigetto della domanda. E questo significa che per lunghi periodi
di tempo non possono far altro che restare lì: bloccati, senza possibilità di andare via e cercare altrove un luogo in cui vivere.
Di hotspot, centri di registrazione e
identificazione, sull’isola di Samos, ce n’è solo uno. Questo comprende,
al suo interno, anche uno svariato numero di container e di risorse
primarie per garantire almeno un’accoglienza base ai migranti. Il
problema è che l’attrezzatura ivi presente è idonea ad ospitare solo
all’incirca seicentocinquanta persone, mentre sull’isola, attualmente,
ve ne sono almeno cinquemila. Le persone che non riescono ad avere
accesso ai servizi, finiscono per organizzarsi con quello che trovano: si allontanano un po’, si dirigono verso un bosco e lì creano un accampamento. Con tende e oggetti recuperati in giro. Questo
significa vivere per lunghi periodi senza acqua con cui lavarsi, senza
luce, senza servizi igienici, al freddo e in condizioni di sofferenza. “We are not animals” è ciò che ripetono le persone lì accampate.
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Fonte: AsinuPress
Autore: Antonella Maiorino
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Articolo tratto interamente da AsinuPress
E' terribile leggere di queste sconvolgenti realtà.
RispondiEliminaSituazioni simili, in altre parti d'Europa.
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