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sabato 21 giugno 2025

Se vuoi vedere il futuro, guarda Gaza



Articolo da Passa Palavra

Questo articolo è stato tradotto automaticamente. La traduzione rende il senso dell’articolo, tuttavia consigliamo di leggere il testo originale su Passa Palavra

Viviamo in una pace satura. Non la pace della concordia, ma la pace dell'anestesia: un intervallo controllato tra i bombardamenti. A Gaza, questa anestesia fallisce. Il mondo, abituato a camuffare la violenza con il velo del linguaggio tecnico – "operazioni", "danni collaterali", "sicurezza" – trova lì il crollo delle sue metafore.

Nella Striscia, non c'è vernice possibile. Il reale è nudo: corpi a pezzi, bambini sepolti, colonne di fumo come unica architettura del tempo. Ciò che vediamo lì è il capitalismo senza mascheramenti, il motore della storia senza cofano, che gira sulle ossa. Gaza è il momento in cui gli ingranaggi perdono la loro vergogna.

Lì, ogni illusione liberale si infrange. Non esiste contratto sociale, né diritto alla vita, né stato sociale. Esistono zone di sacrificio delimitate da confini e mantenute dalla tecnologia bellica. E ciò che vi si sperimenta – droni autonomi, blocchi logistici, gestione algoritmica della scarsità – non è un'eccezione, ma un'anticipazione. Gaza è il terreno in cui il capitale mette alla prova il suo futuro dominio, dove il controllo assoluto della popolazione diventa un'operazione di routine, dove la vita è gestita come un prodotto di scarto.

Tutto diventa calcolo. L'esistenza si misura in megabyte di sorveglianza, il territorio in metri di isolamento, la morte in margini di profitto. La logica dell'accumulazione esige questo tipo di laboratorio: luoghi dove la devastazione è tollerabile, dove l'orrore può essere gestito come un'opportunità, dove l'indifferenza internazionale diventa una licenza per continuare. E il mondo, abituato allo spettacolo, consuma queste immagini come se fossero finzione: un genocidio assistito in diretta, tra una notifica e l'altra.

Ma Gaza persiste. E questa persistenza è insopportabile. Perché pulsa ancora ciò che avrebbe dovuto essere sradicato: la dignità, la comunità, il gesto di dire "no" anche sotto le macerie. Questo rifiuto di scomparire è ciò che sfugge al controllo totale. Ed è esattamente ciò che il capitale non può tollerare: che una vita, per quanto circondata, distrutta e ridotta al silenzio, si affermi ancora come non negoziabile.

Non si tratta solo di occupazione o conflitto. Gaza è un laboratorio. Un terreno di sperimentazione dove vengono testate forme di controllo, tecniche di sorveglianza e cicli di scarsità programmata. Tutto ciò che viene sviluppato lì verrà prima o poi esportato: nelle periferie urbane, nei campi profughi, nelle baraccopoli dei tropici.

Circondata come una prigione, osservata come una popolazione in eccesso, Gaza è una versione radicale di ciò che sta gradualmente diventando universale: la gestione della vita come un costo e della morte come un'opportunità. La necropolitica, al di là di un concetto, è logistica quotidiana. Ogni esplosione ha un prezzo. Ogni attacco è una voce contrattuale. La guerra è sempre stata un settore strategico del capitale. Anzi, è di più: come direbbe Marildo Menegat, la guerra fa parte della logica stessa del capitale, intrecciandola con le dinamiche storiche e categoriali del capitalismo, soprattutto nel suo momento di crisi fondamentale.

Le tecnologie di repressione che oggi proteggono i confini in Europa o controllano i quartieri razzializzati negli Stati Uniti sono state perfezionate in territori come Gaza [1]. Lì, il tempo è invertito: il futuro è già arrivato, ma sotto forma di assedio. Un futuro in cui lo Stato si fonde con il capitale delle armi, dove la sicurezza è il linguaggio dell’espropriazione, dove il nemico è definito dall’essere nato dalla parte sbagliata della barricata. Gaza è il luogo in cui la militarizzazione totale della vita si presenta come normale.

L'economia politica della distruzione è anche una pedagogia. Insegna che la sofferenza può essere redditizia, che il dolore può essere quantificato, che eliminare l'indesiderabile è un compito razionale, gestibile e commerciabile. Le immagini dei corpi sepolti non sono solo una conseguenza: fanno parte del prodotto. Vendono narrazioni, generano clic, consolidano il consenso. Con ogni bomba che cade, un indice sale, un'azienda cresce, una diplomazia si riorganizza.

E la cosa più perversa: Gaza non è vista come un monito, ma come un'opportunità. Chi governa il mondo non si vergogna di ciò che sta accadendo lì: ne prende atto. Perché Gaza funziona. Perché il controllo viene mantenuto. Perché, nonostante tutto, il mercato continua. E questa è la lezione che si diffonde: la gestione perfetta della catastrofe, l'efficienza della barbarie, la stabilità dell'orrore come modello esportabile.

C'è chi ancora immagina la barbarie come un incidente, qualcosa che si insinua quando il "sistema" fallisce. Ma Gaza ci insegna il contrario: la barbarie è il "sistema". È il sistema che opera alla massima efficienza, generando profitto dalla rovina. Non c'è collasso: c'è un piano. Non c'è caos: c'è una strategia. L'orrore è organizzato in fogli di calcolo, distribuito dai satelliti, ottimizzato da algoritmi.

Ed è per questo che Gaza non può essere considerata solo un caso estremo. Gaza è un'avanguardia, non di distruzione, ma di futuro. Un futuro costruito sulla logica dell'eliminazione del superfluo umano. Un futuro in cui la vita, per esistere, dovrà giustificare il suo rapporto costi-benefici.

La naturalizzazione di questo orrore richiede più che carri armati: richiede linguaggio, teoria e l'ingegneria dell'oblio. Walter Benjamin [2] ci ha avvertito che ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie – e Gaza, in questo senso, rivela la cultura politica di un mondo che riconosce come legittima solo la vita che può essere convertita in merce. Ciò che viene distrutto lì non è solo l'infrastruttura di un popolo, ma la possibilità di un'altra storia – ciò che Benjamin chiamava il passato irredento, che resiste alla narrazione dei vincitori. Gaza non si adatta alla narrazione progressista della civiltà occidentale. Interrompe. Accusa. Denuncia che la storia, così come è stata scritta, è una sequenza di stati di eccezione che sono diventati la regola.

Karl Korsch [3], analizzando le mutazioni dello Stato borghese di fronte alla crisi e alla guerra, aveva già indicato che la logica del capitale, di fronte a un'impasse, ricorre alla violenza organizzata come soluzione strutturale. La distruzione, quindi, non è una disfunzione dell'ordine, ma il suo principio di riorganizzazione. Gaza non è un'anomalia. È una razionalità brutale, un indicatore dell'adattamento del capitale alla propria crisi strutturale, dove la guerra sostituisce la politica e la soppressione dell'umanità è ciò che garantisce la sopravvivenza del sistema. Lo Stato, lungi dall'essere un arbitro, diventa un operatore diretto dell'accumulazione attraverso il saccheggio, armato non solo di fucili, ma di trattati internazionali che ne garantiscono l'impunità.

Pensando al fascismo come a un modo di gestire la pulsione di morte, Vladimir Safatle [4] ci aiuta a comprendere come Gaza non sia solo un palcoscenico per lo sterminio, ma un dispositivo pedagogico di dominio. Al mondo viene insegnato, ogni giorno, che non verrà fatto nulla. Che i corpi possono essere cancellati in tempo reale e che l’indignazione può essere gestita da algoritmi. Questo è un nuovo tipo di potere: uno che non solo distrugge, ma trasforma la distruzione in banalità, ripetizione e flusso. Un fascismo senza spettacolo, ma con efficienza. Un fascismo senza uniformi, ma con droni.

Il pericolo non è solo ciò che si fa a Gaza, ma ciò che Gaza insegna. Perché ciò che si consolida lì è l'equivalenza tra governare ed eliminare. Tra mantenere l'ordine e distruggere l'altro. È la politica ridotta a un'operazione militare. Gaza ci costringe a guardare nelle profondità dell'abisso e a dargli un nome. Non come una tragedia isolata, ma come una rivelazione di ciò che il capitale è disposto a fare – e a ripetere – per preservare la propria sopravvivenza.

Viviamo in un'epoca in cui persino la morte diventa un contenuto. Gaza irrompe sui nostri schermi tra uno scorrimento e l'altro. Un video, una lacrima, un hashtag. Poi, il silenzio. Il dolore è stato consumato. L'orrore, digerito. Ma c'è chi non riesce a dimenticare. C'è chi vive nell'intervallo tra i bombardamenti e si rifiuta di essere cancellato.

Questo rifiuto è ciò che rende Gaza pericolosa. Perché resiste. Resiste con poesia, con volti bruciati che non chiedono pietà, con scuole riaperte tra le macerie, con bambini che disegnano il cielo anche quando c'è solo fumo.

Ma il mondo digitale ha già imparato a neutralizzare anche la resistenza. Come mostra Shoshana Zuboff [5], viviamo sotto un regime di controllo quasi assoluto (quello che lei chiama “capitalismo della sorveglianza”), dove ogni gesto, ogni oltraggio, ogni grido di giustizia viene convertito in dati, analizzato e venduto. Il dolore diventa una metrica per l’impegno. La denuncia diventa traffico. L’algoritmo non distingue tra un grido e un annuncio – conta solo la sua capacità di ritenzione. Così, Gaza corre il rischio di diventare non un ricordo, ma un flusso – una sequenza di immagini che circolano senza zavorra, che indignano senza trasformare, che smascherano senza scuotere.

Lungi dall'emanciparci, i social network funzionano come dispositivi di contenimento: assorbono l'energia politica e la restituiscono addomesticata, trasformata in commenti, like, emoji. La guerra a Gaza, in questo circuito, appare in pixel – ma senza peso. Il mondo è addestrato a guardare la distruzione come se stesse guardando una serie: a episodi, con tagli drammatici, con momenti virali. E poi dimentica. L'orrore si aggiorna, ma non si accumula.

Il controllo non opera solo attraverso la censura, ma attraverso la sovraesposizione. Tutto è mostrato, sempre, finché nulla ha impatto. Come osserva Byung-Chul Han [6], in una delle sue poche intuizioni lucide, viviamo in una “infodemia del reale”, dove l’eccesso di immagini paralizza. E in questo eccesso, Gaza può essere diluita – non perché non urla, ma perché urla insieme a mille altri dolori, tutti sovrapposti, tutti catturati dallo stesso sistema. Mark Fisher [7] ha chiamato questo realismo capitalista: l’idea che, anche di fronte all’orrore, tutto rimane uguale – perché non possiamo più immaginare la fine del capitalismo, solo la fine del mondo. Gaza è la prova che questo mondo sta già finendo. E che le reti, lungi dal denunciare questa fine, la trasmettono con filtri.

Gaza è il luogo in cui il capitale rivela la sua verità più profonda: che l'accumulazione richiede distruzione. Marx, nei Grundrisse, afferma che lo sviluppo delle forze produttive nel capitalismo porta inesorabilmente alla dissoluzione delle condizioni che rendono possibile la vita. La riproduzione espansa del capitale non conosce limiti morali o naturali: deve superarli. Il massacro, in questo contesto, non è una deviazione, ma un ingranaggio: la violenza è funzionale al mantenimento dell'ordine. Il sangue alimenta la macchina. La guerra è un modo per riorganizzare i circuiti dell'accumulazione. Gaza è una zona di sterminio, ma anche una zona di estrazione: di dati, di potere, di profitti. La barbarie non è un collasso del sistema, ne è lo stadio avanzato.

Rosa Luxemburg, di fronte agli orrori della Prima Guerra Mondiale, scrisse che l'umanità si trovava di fronte a una scelta inevitabile: socialismo o barbarie. Oggi, Gaza ci mostra che la barbarie ha vinto un'altra volta. Ma la scelta rimane. Perché la logica che bombarda Gaza è la stessa che privatizza l'acqua, che deforesta l'Amazzonia, che trasforma le abitazioni in attività finanziarie; è la stessa logica che, invece di prendersi cura, fissa i prezzi; invece di proteggere, specula; invece di vivere, uccide. Gaza ci costringe a riconoscere che il mondo è organizzato contro la vita – e che la trasformazione radicale della società non è più un'utopia lontana, ma la condizione di possibilità affinché la Terra rimanga abitabile.

La crisi è una costante del capitalismo, e i momenti di espansione sono solo sospensioni temporanee delle sue contraddizioni strutturali. Gaza è una di quelle zone in cui la crisi si cristallizza sotto forma di rovina. L'impossibilità di integrare certi popoli nel mercato mondiale non genera solidarietà, ma punizione. Quando la valorizzazione del capitale non può espandersi attraverso la produzione, lo fa attraverso la distruzione: guerre, assedi, blocchi, stermini selettivi. Il capitale vive a cicli – e Gaza è il rimbalzo di un mondo in collasso. Un mondo che, quando non trova più dove investire (a causa dei limiti interni della logica stessa della valorizzazione del capitale, nell'interpretazione di Robert Kurz), investe nella morte.

Ma se il capitalismo ha bisogno della guerra, la resistenza ha bisogno della memoria. Marx diceva che i morti opprimono i vivi come un incubo. Ma possono anche illuminarli. Ogni bambino sepolto a Gaza, ogni famiglia distrutta, ogni scuola bombardata esige più del lutto: esige azione. Esige un rifiuto attivo della normalità, un'interruzione consapevole dei meccanismi, una rivolta che spezzi il tempo vuoto della ripetizione e recuperi la possibilità della storia. Perché, come insegnava Luxemburg, saremo soggetti del nuovo o oggetti della catastrofe. Gaza è il bivio: o continuiamo sulla via del profitto armato, o osiamo immaginare un mondo che risorga con la dignità di chi resiste dalle ceneri.

 Gaza come scelta storica

Se Gaza è il futuro, la domanda non è "come possiamo impedirgli di arrivare?", ma "come possiamo impedirgli di divorarci?". Il capitalismo è già in guerra con la vita. Gaza è solo l'avanguardia visibile di un processo sotterraneo che si sta diffondendo come una muffa: silenzioso, corrosivo, letale.

Non c'è neutralità possibile. Il silenzio, a questo punto, è già il rumore della complicità. E ogni volta che non agiamo, l'algoritmo del capitale registra: l'orrore può continuare. È tollerabile. È replicabile.

Il futuro, come diceva Ernst Bloch, non è dato: è un compito. C'è sempre un "non ancora" che pulsa sotto le macerie, una speranza concreta che sopravvive anche nel presente più denso di dolore. Gaza, persino sotto i bombardamenti, porta ancora con sé questo "non ancora" – un domani che insiste per non essere cancellato, una dignità che sfida ogni calcolo, una vita che, anche braccata, non si arrende a se stessa. Rifiutare Gaza come destinazione non è un gesto morale, è un gesto politico di affermazione radicale della storia come possibilità – e non una condanna.

Forse nessuna immagine recente rappresenta questa inversione meglio del film I figli degli uomini (Alfonso Cuarón, 2006), dove un mondo sterile e militarizzato insegue l'ultima scintilla di speranza con carri armati e recinzioni. Gaza, in questo parallelo, è il grembo assediato della storia, dove la possibilità di un futuro è tenuta sotto tiro. Ma nel film, come nella realtà, c'è chi protegge questa possibilità con la propria vita. Perché c'è qualcosa che nemmeno la macchina può schiacciare: la potenza di ciò che può ancora nascere.

Epilogo: La linea sul terreno della storia

Gaza non è solo un territorio. È un crocevia storico. Da un lato, l'ordine che si regge sulla distruzione gestita. Dall'altro, la vita che insiste, anche tra le macerie, a dire "no". Gaza è la scintilla che il sistema cerca di soffocare perché ci ricorda che c'è ancora un mondo da inventare.

Se vogliamo un altro futuro, è da Gaza che dobbiamo partire. Non per accettare ciò che rivela, ma per rifiutare, all'unisono, che questa sia l'unica via.

Perché ciò che è in gioco non è solo una striscia di terra, ma la grammatica di ciò che è possibile. Gaza dimostra che il mondo è già diviso tra chi può essere bombardato e chi guarda. Tra i corpi che si trasformano in cenere e chi scatta. Tra chi trae profitto dal crollo e chi ne viene schiacciato. Ma dimostra anche che, persino di fronte alla fine pianificata, c'è ancora un gesto. C'è ancora una parola. C'è ancora un fuoco che si rifiuta di spegnersi.

Rifiutare Gaza come destinazione è più che solidarietà: è insubordinazione. È dichiarare che non accetteremo un mondo in cui la morte è una citazione, lo sterminio è logistica, la vita è un permesso. È trasformare l'indignazione in prassi. È organizzare il lutto come forza storica. È trasformare l'orrore in una denuncia che smantella la macchina del cinismo e restituisce alle parole il loro potere dirompente.

La storia non è ancora finita. Scricchiola, esita, trema. Gaza è il punto in cui gli ingranaggi cedono – ed è per questo che lì si apre un varco. Una crepa attraverso cui il nuovo può entrare. Sta a noi mantenerla aperta. Sta a noi ritagliarci un futuro che non sia una ripetizione della catastrofe, ma l'invenzione dell'impossibile necessario. Gaza non chiede pietà, chiede coraggio. Il coraggio di staccarsi, di sollevarsi, di ricostruire un altro modo di esistere sulle ceneri.

E quando in futuro ci chiederanno quando tutto è cominciato a cambiare, possiamo rispondere: è cominciato quando abbiamo guardato Gaza e abbiamo deciso di non fare più nulla.

Note

[1] A proposito di questa dinamica leggi: < https://www.intercept.com.br/2025/01/03/entrevista-israel-gaza-tecnologia-guerra/?utm_source=chatgpt.com >.

[2] BENJAMIN, Walter. Sul concetto di storia. In: BENJAMIN, Walter. Magia e tecnica, arte e politica: saggi di letteratura e storia culturale.

[3] I testi di Korsch sulla guerra e sul nazifascismo si trovano sul portale Crítica Desapiedada, tradotto in portoghese: < https://criticadesapiedada.com.br/dossie-karl-korsch-guerra-e-nazifascismo/ >.

[4] SAFATLE, Vladimir. Pensare dopo Gaza. Blog Boitempo, 15 maggio 2024. Disponibile all'indirizzo: https://blogdaboitempo.com.br/2024/05/15/pensar-apos-gaza/ .

[5] ZUBOFF, Shoshana. L'era del capitalismo della sorveglianza: la lotta per un futuro umano sulla nuova frontiera del potere. Tradotto da George Schlesinger. Rio de Janeiro: Intrínseca, 2020. 800 p.

[6] HAN, Byung Chul. Infocrazia: digitalizzazione e crisi della democrazia. Petrópolis, RJ: Vozes, 2022. 114 p.

[7] FISHER, Mark. Realismo capitalista: è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo? Tradotto da Rodrigo Gonsalves e Jorge Adeodato: Autonomia Literária, 2020. 218 p.


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Fonte: Passa Palavra

Autore: Gabriel Teles

Licenza: Copyleft 


Articolo tratto interamente da 
Passa Palavra


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