sabato 12 febbraio 2022

I lavoratori sono sempre più poveri



Articolo da La Città Futura

Come si misura la povertà lavorativa? Una domanda di non facile risposta, per quanto l’esperienza comune insegni a giudicare poveri quanti non percepiscono un salario adeguato a supportare le esigenze personali e familiari.

Di solito il “lavoratore a bassa retribuzione” (low-pay) ha una retribuzione annua inferiore al 60% della retribuzione mediana, il povero su base familiare invece ha un reddito inferiore al 60% di quello mediano. È povero chi lavora meno di sette mesi all’anno; è povero chi non va oltre un contratto part-time; sta diventando povero anche chi ha un full-time ma con contratti nazionali di riferimento che prevedono una bassa paga oraria. La povertà delle famiglie non riguarda più solo i nuclei monoreddito o con figli a carico. Sovente a non arrivare in fondo al mese è il lavoratore che fino a 10 anni fa poteva definirsi privilegiato, con un posto fisso e contratto full-time.

Ogni considerazione sulla povertà riporta la mente alla figura sociale del lavoratore o pensionato indebitato, costretto a continui prestiti per far fronte a esigenze familiari e a spese insostenibili con la sua semplice fonte di reddito.

Il debito non è solo un rapporto economico; resta anche una tecnica di controllo e di governo delle soggettività individuali e collettive. Chi contrae debiti è generalmente, per ovvi motivi, un soggetto ricattato e ricattabile, vive una situazione di inferiorità e un senso di colpa che poi è stato insinuato per anni nella nostra mente, una sorta di espiazione del debito pubblico, esploso fragorosamente nel corso degli ultimi anni per salvare il sistema finanziario privato, che diviene il giusto pretesto per abbattere le spese sociali e quelle pensionistiche.

Nei 40 anni di politiche neoliberiste, il lavoratore indebitato è divenuta figura di massa, indebitato rispetto alle banche per onorare prestiti atti all’acquisto della prima casa, a ripagarsi le spese universitarie o sanitarie (specie laddove istruzione e sanità pubblica non funzionano), a coprire le spese per un’assicurazione privata o semplicemente arrivare a fine mese.

Il progressivo impoverimento della classe lavoratrice è causato dalla perdita di potere di acquisto che riguarda ormai salari pubblici e privati, dal rincaro generalizzato delle tariffe e dei generi di prima necessità, dal part time involontario e dai contratti da fame determinati dalla politica dei bassi salari.

E se oggi gli stipendi sono leggeri, anzi leggerissimi, lo saranno anche le pensioni di domani tra vuoti contributivi e un sistema di calcolo dell’importo previdenziale alquanto svantaggioso per i bassi e medi salari, in primis i precari e le precarie.

Il lavoratore indebitato vive una situazione paradossale: subisce la crescita dei carichi di lavoro ma percepisce salari del tutto insufficienti, vive sulla sua pelle la colpevolizzazione tipica della miseria vissuta con senso di vergogna, percepisce una sostanziale inadeguatezza, un fallimento esistenziale. La povertà non è solo economica ma etica e morale, tanto che ciascuno di noi nasce già con un fardello di debiti da pagare (ma specularmente c’è chi – pochi – nasce con un cospicuo credito!). Potremmo sintetizzare l’intero ragionamento nel luogo comune secondo il quale si vive per lavorare e pagare i debiti. E il fardello del debito pubblico per anni è stato scaricato sulle nostre spalle per sviluppare un senso di colpa diffuso che alla fine impedisce di avanzare rivendicazioni forti in termini di salari, pensioni e servizi.

È di pochi giorni fa la relazione di un gruppo di lavoro istituito con un decreto ministeriale del 2021 sulla povertà del lavoro, ne consigliamo vivamente la lettura per fotografare lo stato delle cose presenti.

Il lavoro è diventato povero e così avere un posto fisso non ci salva dall’indebitamento, stretti fra salari stagnanti e l’esplosione del tempo parziale involontario. Vi entrano in gioco alcuni fattori tipici della debolezza strutturale dell’economia italiana, tra lavoro autonomo che, pur beneficiando di regimi fiscali agevolati rispetto al lavoro dipendente, presenta ancora sacche consistenti di evasione e la miriade di “lavoretti” a basso valore aggiunto. Esce frammentato e indebolito il lavoro, al pari del servizi erogati al cittadino. I lavori vengono spezzettati e fatti erogare in brevi fasce orarie. Esigenze produttive spingono a ridurre il costo del lavoro e a ricorrere ai part time di poche ore per abbattere i tempi morti. Avviene soprattutto nel settore dei servizi e negli appalti: nelle cooperative sociali operanti nel terziario, soprattutto pubblico, i posti di lavoro sono per lo più part time per poche ore settimanali e con salari da fame. Questo dilagare di lavori sottopagati nelle cooperative sociali è soprattutto il risultato della norma (art. 12 bis legge 68/1999 e successive modifiche) secondo cui l’obbligo del datore di lavoro di riservare una quota di posti di lavoro ai disabili può essere assolto appaltando il servizio a una cooperativa sociale.

Piaccia o non piaccia il reddito di cittadinanza, in assenza di altri provvedimenti per garantire la piena occupazione – come per esempio la riduzione dell’orario di lavoro e l’attivazione di posti pubblici in settori di grande utilità ma tralasciati dal mercato – e di un giusto salario, è stata una misura indispensabile per il sostegno al reddito di famiglie che non arrivano in fondo al mese e necessitano di misure atte a sostenerne il potere di acquisto.

Il moderno welfare, da universale che era, si è trasformato in una sorta di sostegno al reddito vuoi sotto forma di reddito di cittadinanza, vuoi di bonus per accedere ad alcuni servizi materiali.

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Articolo tratto interamente da La Città Futura 


4 commenti:

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