martedì 15 settembre 2020

Il grande Fausto Coppi

 


Articolo da Sport popolare

«C’è un uomo solo al comando, veste la maglia bianco azzurra e il suo nome è Fausto Coppi!». Questa frase, pronunciata dal principe dei radiocronisti Mario Ferretti, è entrata a pieno titolo nella nostra storia collettiva, sportiva e non: come il «clamoroso al Cibali!» e anche di più, ha varcato la soglia della nostra storia sociale e della psicologia collettiva. Perché oltre a essere uno dei ciclisti più vincenti della storia, protagonista della rivalità più celebre e allo stesso tempo totalizzante del ciclismo italiano e non solo, il primo a fare l’accoppiata Giro d’Italia - Tour de France, capace di imprese impensabili, Fausto Coppi rappresentava tutto il Paese in uno dei momenti più nevralgici della nostra storia recente, quello a cavallo della Seconda guerra mondiale, a cui egli prese parte venendo anche catturato dagli Alleati in Tunisia; la miseria della vita contadina, la speranza, la rinascita quando tutto sembra già essere delineato in maniera avversa.

 Come nel suo secondo Tour de France vinto, quello del 1949, quando dopo le prime cinque tappe aveva quasi trentasette minuti di ritardo dal battistrada, ma anche nella tappa tra Briançon e Aosta (quella fu la prima edizione in cui la Grande Boucle uscì dai suoi confini nazionali) in un focolaio di tensione etno-linguistica mai così alto da quelle parti: d’altronde l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia invadendola solo nove anni prima, e gli abitanti locali sputavano e ingiuriavano sui corridori italiani, ma ciò non bastò a farlo demordere dato che vinse la tappa, una tappa epica nella quale Coppi rallentò dopo la caduta di Bartali quasi per aspettarlo, e in cui il campione francese Robic si presentò alla corsa con un casco da motociclista.

E poi il trionfo, come quando a Lugano vinse il campionato mondiale su strada (l’ultimo alloro che mancava a un palmares a dir poco invitabile) davanti a migliaia e migliaia di nostri connazionali che organizzarono una dozzina di treni speciali e torpedoni per assistere alla vittoria del Campionissimo che dedicò la vittoria proprio a loro e al ritrovato orgoglio nazionale, questa volta depurato di accenti sciovinisti e guerreggianti, perché era proprio sulle ruote tanto leggere quanto feroci dei nostri ciclisti più forti che il Paese si rivedeva: il calcio ancora stentava a riaffermarsi, perché ancora impegnato a togliersi le scorie dell’abbraccio mortale del precedente regime defunto, e solo la tragedia di Superga gli restituì un rapporto privilegiato col popolo italiano. La forza di resistere agli scherzi del destino come quello di vedere suo fratello Serse morto per un’emorragia cerebrale in seguito a una caduta dalla bicicletta durante una corsa in Piemonte nel 1951, e allo stesso modo il coraggio di sfidare un senso comune troppo borghese e benpensante capace di non perdonargli mai le sue scelte nella vita privata, come quando si innamorò di Giulia Occhini, colei che fu soprannominata dai giornalisti “La dama bianca”, che gli diede un figlio e con cui diedero vita a un amore adultero che gli costò la riprovazione dell’opinione pubblica italiana intrisa ancora di una morale cattolica conformista e doppia, oltre che una condanna per abbandono del tetto coniugale, tant’è che per vedere riconosciuto il loro amore furono costretti ad andarsene in Messico.

Vincitore di ben 151 gare su strada, di cui 81 per distacco, tra cui cinque volte il Giro d’Italia e due volte il Tour de France, 4 Giri di Lombardia, 3 Milano-Sanremo, i campionati del mondo strada e pista (inseguimento) e il record dell’ora, Coppi è stato in grado di regalare momenti di sport esaltanti e inscalfibili dall’incedere del tempo ma anche delle vere e proprie “perle” da parte di chi si trovava a commentare le sue gesta, come quando al termine della Milano-Sanremo del 1946 (stra)vinta da Coppi il radiocronista Rai Nicolò Carosio annunciò così la sua vittoria: «Primo Fausto Coppi. In attesa del secondo, trasmettiamo musica da ballo». Ma probabilmente il suo capolavoro fu la tappa del 10 giugno del 1949 da Torino a Pinerolo dove dopo una fuga solitaria di 192 chilometri, durante la quale dovette fare i conti con ben cinque forature, mise le mani sul Giro d’Italia arrivando primo con ben dodici minuti di vantaggio su Gino Bartali.


Continua la lettura su Sport popolare


Fonte: 
Sport popolare



Articolo tratto interamente da 
Sport popolare


12 commenti:

I commenti sono in moderazione e sono pubblicati prima possibile. Si prega di non inserire collegamenti attivi, altrimenti saranno eliminati. L'opinione dei lettori è l'anima dei blog e ringrazio tutti per la partecipazione. Vi ricordo, prima di lasciare qualche commento, di leggere attentamente la privacy policy. Ricordatevi che lasciando un commento nel modulo, il vostro username resterà inserito nella pagina web e sarà cliccabile, inoltre potrà portare al vostro profilo a seconda della impostazione che si è scelta.