giovedì 3 ottobre 2019

Viaggio nel lager libico di Zawiya




Articolo da Open Migration

A settembre la Procura di Agrigento, con il supporto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, ha arrestato due ragazzi egiziani e uno guineano contestando, per la prima volta in Italia, il reato di tortura. A innescare le indagini le testimonianze di cinque migranti, arrivati a Lampedusa a inizio luglio, tratti in salvo dal veliero Alex di Mediterranea. Oltre questo reato i tre dovranno rispondere anche di sequestro e tratta di essere umani per le violenze avvenute nel centro di detenzione libico di Zawiya. Proprio lì ci porta Lorenzo Bagnoli.

Un’ex base militare, a dieci minuti dal mare, trasformata in prigione. I detenuti sono divisi in enormi hangar, una volta usati come depositi. In uno stanno donne e bambini. Negli altri due stanno gli adulti: da una parte migranti dell’area subsaharina, dall’altra quelli del Corno d’Africa. Il primo è l’hangar dei pestaggi, il secondo quello “ufficiale”. A giugno 2019, la struttura conteneva 850 persone, una sopra l’altra. Fuori, un grande cortile nel quale si allunga un campo da calcio, perennemente popolato da bambini, poco oltre un container. Tutt’intorno una recinzione in muratura, color sabbia e bordata di blu. Ogni tanto c’è pure qualche disegno, persino uno schizzo di Spongebob. La interrompe un pesante cancello blu, dal quale si accede alla struttura. A pochi passi, svetta la raffineria di Zawiya, famosa per essere stata luogo di smistamento del gasolio di contrabbando fino almeno all’agosto del 2017. Qui dentro, al centro di detenzione di al-Nasr, comanda un uomo di nome Ossama: un libico basso di statura, stempiato, con i capelli corti e brizzolati. Il carceriere del centro di detenzione di Zawiya. Il suo nome completo, in Libia, lo conoscono tutti: Ossama Milad Rahuma, il cugino del guardacoste libico più noto in Italia, al Bija.

Questa fotografia emerge dall’incrocio di due fonti: l’ultima indagine sui trafficanti di esseri umani condotta dalla Procura di Agrigento con il supporto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e da un reportage di Euronews dello scorso giugno. La prima è basata sulle parole di cinque migranti, arrivati a Lampedusa a inizio luglio, tratti in salvo dal veliero Alex di Mediterranea che con le loro testimonianze hanno innescato l’indagine. Il risultato ottenuto, al momento, è la carcerazione di due ragazzi egiziani e uno guineano nati tra il 1993 e il 1997, accusati di aver fatto parte a vario titolo del gruppo di Ossama. Caporali, probabilmente, che aiutavano i secondini in cambio di un trattamento migliore. Almeno fino a quando uno dei tre, Suarez il guineano, ha litigato con il boss della struttura per i suoi metodi eccessivamente crudeli. Forse è stato questo uno dei motivi che li ha spinti a scappare. 

I migranti sentiti dalle Procure siciliane non chiamano mai il centro con il nome al-Nasr, ma diversi dettagli fanno pensare che si tratti di quella struttura di Zawiya. D’altronde, l’altro centro della città libica, quello di Abu Issa, ha dimensioni molto più ridotte ed è solo per uomini. Un dettaglio però non torna tra la versione dei migranti e quella fornita alla cronista di Euronews Anelise Borges dai poliziotti libici: questi ultimi sostengono che in precedenza la struttura fosse una fabbrica di pneumatici e non una base. Un dato incontrovertibile riguarda però chi comanda a al-Nasr: Ossama. Il libico – di cui Avvenire ha anche pubblicato una foto – ha diversi fratelli (il minore è attivo al centro, si chiama Ahmed) e alcuni fedelissimi. Uno è un egiziano, Mohammed. È il più violento: un testimone racconta di averlo visto torturare fino alla morte un concittadino ghanese. Ha delle cicatrici in faccia, fino al collo. Suo fratello Mahmoud è uno degli arrestati che stava nell’hotspot di Messina. Un altro è un pakistano, di cui nessun testimone è stato in grado di ricordare il nome. Ad un certo punto, i migranti raccontano sia tornato nel suo Paese. Un fatto finora inedito nei racconti di chi è stato nei centri di detenzione. C’è poi un certo Papa Adjasko, sudanese alto e magro, che i migranti ricordano per le botte che rifilava ai detenuti. A questi si aggiunge un altro Mohammed, libico, un poliziotto libico stando alla divisa che porta sempre con sé. È lo stesso che accompagna la giornalista di Euronews all’interno del campo. La descrizione corrisponde alle parole dei migranti: “barba lunga e vestita in abiti militari, in quanto sulle spalline aveva una stella e tre barre”.


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Fonte: Open Migration


Autore: 
Lorenzo Bagnoli

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Articolo tratto interamente da 
Open Migration


4 commenti:

  1. Caro Vincenzo, tutto questo preoccupa tutti, ci sono dei mostri in giro.
    Ciao e buona serata con un forte abbraccio e un sorriso:-)
    Tomaso 

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    1. Sono veri campi di concentramento, lo sterminio è sotto gli occhi di tutti.

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  2. Un articolo dalle tinte drammaticamente forti, giustamente. visto che anche quella realtà è terribile e dura.

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    1. Una triste realtà, ma soprattutto uccide l'indifferenza dei popoli che si definiscono "democratici".

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