Articolo da La Città Futura
Non è lavoro, è sfruttamento è il libro di una giovane ricercatrice militante, Marta Fana,
recentemente uscito in libreria per Laterza. Il libro è una sorta di
viaggio oltre la frontiera dei diritti, lì dove si sperimentano le
nuove e più radicali forme di sfruttamento, dai voucher al cottimo fino al lavoro gratuito, passando dall'alternanza scuola lavoro. Un viaggio dentro il reality del
nuovo mercato del lavoro, dove non ci sono diritti, non c'è orario e
non c'è luogo di lavoro, non c'è malattia e non ci sono ferie, a volte
non c'è nemmeno salario. Insomma, lì dove il concetto di lavoro si dissolve in quello di sfruttamento.
Il libro è da leggere, scorre via veloce, scritto
in una prosa semplice e gradevole. Mi permetto quindi una riflessione
che va un po’ oltre. E un passo indietro. Cosa è lavoro e cosa è
sfruttamento? Nel 1978 nel suo Dizionario di Sociologia, Luciano Gallino li definiva così. Lavoro:
attività intenzionalmente diretta, mediante un certo dispendio di
tempo e di energia, a modificare in un determinato modo le proprietà di
una qualsiasi risorsa materiale o simbolica, onde accrescerne
l’utilità per sé o per altri, con il fine ultimo di trarre da ciò, in
via mediata o immediata, dei mezzi di sussistenza. Sfruttamento: vedi Capitale.
In una società capitalistica, di fatto, il lavoro è
sfruttamento, cioè appropriazione più o meno indebita di parte del
plusvalore prodotto. Però c'è stato un tempo in cui il lavoro era anche
identità, integrazione, riconoscimento sociale e persino dignità.
Efficacemente, un altro sociologo, Aris Accornero, aveva definito il Novecento il secolo del Lavoro
(con L maiuscola), descrivendone poi la parabola che, sul finire degli
anni ‘90 lo stava trasformando nel più prosaico termine di lavori (al plurale e con la L minuscola). Proprio quei lavori di cui parla Marta Fana 20 anni dopo, nel mercato usa e getta della precarietà assoluta.
Non è che l'operaio del Novecento fosse meno sfruttato del lavoratore precario di oggi. L'organizzazione taylor-fordista del lavoro nelle fabbriche di quei decenni non era certo meno massacrante. E nemmeno la classe operaia degli anni ‘70 andava in paradiso.
Ma era protagonista, nella società, nella politica, nella
cinematografia, appunto e in generale nell'immaginario collettivo.
C'era una centralità del lavoro, in particolare una centralità operaia,
conquistata anche con le lotte degli anni ‘70, che lo rendeva soggetto
sociale e politico. A fronte di una condizione per definizione
monotona e ripetitiva, la classe operaia aveva in cambio le garanzie
del posto fisso, l’accesso al welfare e alla società dei consumi, la
costruzione di un sistema di tutele e diritti di cui lo Statuto dei
Lavoratori fu l'architrave. Piacesse o meno, alla base esisteva un
compromesso, tutto interno alla società capitalistica: sfruttamento in
cambio di diritti, salario e inclusione sociale.
Il punto è questo. Oggi è rimasto soltanto lo
sfruttamento. Non ci sono più i diritti e lavorare non è più garanzia
di inclusione né tanto meno di benessere. Si può lavorare, ma essere
comunque poveri. E oggi a nessuno verrebbe in mente di cantare "chi non
lavora, non fa l'amore", perché il lavoro non garantisce di per sé
alcuno status. La parabola è iniziata a cavallo degli anni 80 e
90, preparata nelle fabbriche, nella politica e nell'immaginario
collettivo dalla sconfitta del movimento operaio ai cancelli di
Mirafiori nel 1980.
Da allora, profezie tanto apocalittiche quanto
affrettate hanno portato l’opinione comune a credere che, con
l'innovazione tecnologica e organizzativa, la classe operaia fosse in
via di estinzione. In realtà, non sono mai spariti gli operai. Non c'è
mai stata alcuna evidenza statistica di questo tipo. Sono diminuite di
sicuro le grandi fabbriche fordiste e aumentate le micro-imprese
artigiane. Sono entrate in massa le donne nel mercato del lavoro e sono
aumentate le professionalità a basso valore aggiunto nei servizi. Ma
non è mai sparito il lavoro operaio, né tanto meno lo sfruttamento.
Soltanto che non aveva più il volto dell'operaio interpretato da
Gianmaria Volonté nel film del 1971.
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Fonte: La Città Futura
Licenza: Copyleft
Articolo tratto interamente da La Città Futura
Articolo tratto interamente da La Città Futura
Caro Vincenzo, credo che sia veramente un libro interessante!!!
RispondiEliminaCiao e buon inizio delle settimana con un forte abbraccio e un sorriso:-)
Tomaso
Sicuramente da leggere.
EliminaAncora più duro, caro Cavaliere, del leggerlo, dello scriverne, è il viverle queste situazioni. Ed essendo legalizzate ti ritrovi schiacciato e impotente, soprattutto in realtà dove non esiste "nulla".
RispondiEliminaPurtroppo le realtà sono anche troppe.
EliminaC'è sfruttamento anche perché nessuno si impegna a lottare per i diritti. C'è troppa rassegnazione e acquiescenza. Mancano i leader, è vero ma anche quella forza e quell'impegno che deve nascere dalla base dei lavoratori. Sergente Elias (http://ricominciaredatre.blogspot.com)
RispondiEliminaCondivido, nessuno lotta più.
EliminaBellissimo articolo e libro che deve essere molto interessante. E' vero, non è lavoro è sfruttamento con l'aggravante che si tratta di uno sfruttamento precario perché possono anche lasciarti a casa. E' vero così non ti sfruttano ma ti lasciano morire di debiti e di fame.
RispondiEliminaSempre più sfruttati e con meno diritti.
EliminaCome dirlo per l'ennesima volta. Anticamente dicevano che il lavoro era ciò che dava orgoglio ad una persona.
RispondiEliminaQuesto tipo di lavori che non sono lavori onesti ma sono un modo per sfruttare giovani e persone sopra i 35/40 anni, si crea solo un senso di insoddisfazione e di poca considerazine di sè stessi nei lavoratori.
Questo tipo di lavori sono l'inferno dei nostri tempi - un inferno in terra !
Una nuova forma di schiavitù.
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